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Paolini e Berrettini: quando il tennis diventa racconto di riscatto e identità

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Paolini e Berrettini: quando il tennis diventa racconto di riscatto e identità

Non si tratta soltanto di sport, né di classifiche ATP o WTA. L’approdo di Jasmine Paolini alla semifinale del torneo di Miami – prima donna italiana a riuscirci – e il ritorno di Matteo Berrettini ai quarti dello stesso torneo dopo mesi difficili, rappresentano qualcosa di più. Qualcosa che ha a che fare con il carattere di un Paese, con il riscatto personale, con l’idea stessa di tenacia. Il tennis, sport individuale per definizione, si trasforma così in un teatro collettivo, dove si proiettano aspettative, identità, memorie familiari e sociali.

Paolini e Berrettini: quando il tennis diventa racconto di riscatto e identità

Paolini ha 28 anni, è nata in Toscana, ha origini ghanesi da parte di madre e polacche da parte di nonna. In un’Italia ancora incerta nel raccontarsi come Paese realmente multiculturale, il suo volto sorridente, determinato, gentile, diventa una narrazione alternativa. Nessuna enfasi, nessuna costruzione epica da copertina. Ma una disciplina ostinata, una crescita lenta, una fiducia costruita match dopo match. La sua semifinale a Miami non è solo una vittoria: è una piccola cesura, una prova che l’eccellenza italiana oggi ha tanti volti, tanti accenti, tante storie.

Il ritorno di Berrettini: dalla fragilità al presente
Berrettini torna tra gli otto migliori di un torneo Masters 1000 dopo un lungo periodo segnato da infortuni, dubbi, critiche. Il suo corpo, in questi mesi, è stato al centro della narrazione più del suo gioco. Ma la forza di Berrettini sta nell’essere riuscito a rientrare senza rumore, senza rivendicazioni, solo con l’eleganza del lavoro. La sua presenza a Miami è un segno silenzioso di resistenza. Non quella muscolare o aggressiva, ma quella dell’uomo che accetta la caduta e sceglie comunque di tornare.

Un’Italia che si racconta anche attraverso lo sport
Paolini e Berrettini – così diversi tra loro – offrono insieme un racconto utile al Paese. In un momento storico in cui l’Italia è chiamata a ridefinire le proprie narrazioni collettive, lo sport continua a rappresentare un laboratorio identitario. Non serve essere esperti di tennis per comprendere il senso simbolico di due atleti italiani che, con percorsi differenti, riescono a iscriversi nella geografia internazionale non con l’arroganza, ma con la profondità. La finale non è l’unico traguardo: il traguardo è esserci in modo autentico.

Il corpo, la mente, la solitudine del campo
Il tennis è uno sport crudele. Non prevede sostituzioni, non offre nascondigli. Ogni colpo è un atto individuale, ogni errore è esposto, ogni successo è interamente tuo, così come il fallimento. In questa dimensione, Paolini e Berrettini hanno mostrato un controllo emozionale che è, a sua volta, una lezione pubblica. La gestione dell’attesa, la capacità di adattamento, la lucidità nella fatica: sono qualità che parlano al di là dello sport. Sono valori che la società riconosce, spesso senza nominarli, ma sentendoli propri.

Racconti silenziosi in un mondo che urla
In un’epoca in cui lo sport tende all’eccesso narrativo, tra storytelling forzati e retorica eroica, la vicenda di questi due atleti si impone per contrasto. Non gridano, non si vendono. Giocano, cadono, si rialzano. E per questo, forse, toccano una corda profonda. Paolini non è solo una tennista: è la possibilità di riformulare cosa significa “italianità” oggi. Berrettini non è solo un giocatore rientrato: è l’immagine di un tempo non performativo, ma resiliente. Entrambi sono simboli non perché vincono, ma per come lo fanno.

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