Parlare di nucleare non è tabù, Artizzu (Sogin): "In Italia formazione accademica di eccellenza, ma a vantaggio di altri"

- di: Redazione
 
Dopo che, quasi quarant'anni fa, il referendum cancellò la possibilità per l'Italia di proseguire lungo la strada dell'energia nucleare, è come se fosse stata imposta una pietra tombale su questo argomento. Quasi che parlare, discutere, confrontarsi sul nucleare fosse uno sfregio alla volontà popolare. In fondo è la conseguenza del gusto, tutto latino, di estremizzare le cose, di non considerarle per quello che sono. Quindi parlare oggi di energia nucleare è un modo di guardare a quel che si fa altrove, a come altri Paesi, come il nostro non gratificati da risorse che ne aiutino l'indipendenza energetica, affrontano la questione, con soluzioni concrete - progetti e opere - , ma anche aprendo un dibattito (come accaduto in Germania e nel Regno Unito, mentre la Francia è convintamente "nucleare"), perché è attraverso il confronto che si può guardare ai problemi, sperando di trovare argomenti per risolverli.

Parlare di nucleare non è tabù, parla Gian Luca Artizzu (AD Sogin)

Così l'Italia, tra i Paesi industrializzati, ha deciso di "negarsi" l'energia nucleare e tutti lo devono accettare. Ma allo stesso modi si deve trovare la possibilità di discuterne, perché il problema non è più solo del potenziale pericolo che una certa narrazione fa delle centrali, ma anche quello dell'ambiente e della sua salvaguardia, magari abbattendo le emissioni nocive grazie all'energia nucleare..
Utopia? Nemmeno tanta, perché - ma è solo l'ultimo esempio, comunque significativo, come spiegheremo più avanti - la Cina qualche giorno fa ha approvato la costruzione di undici reattori, con l'obiettivo, oltre che di avere una fonte di energia, soprattutto di migliorare l'equilibrio climatico del Paese, messo a dura prova dalla combustione di carburanti fossili.

Il progetto, a regime, avrà un costo di quasi 28 miliardi di dollari, con la Cina che sta costruendo più centrali nucleari di qualsiasi altro Paese al mondo (solo negli ultimi due anni ne sono stati approvati dieci nuovi). Uno sforzo economico enorme che entro pochi anni consentirà alla Cina, sorpassando Francia e Stati Uniti, di diventare il primo produttore mondiale di energia nucleare.
La Cina gestisce 55 centrali nucleari, posizionandosi al terzo posto a livello mondiale, e con 36 unità in costruzione possiede il più grande progetto di costruzione di centrali nucleari al mondo. Uno sforzo economico necessario a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060.

Questo è quel accade oltre le Alpi, il Mediterraneo e gli oceani. In Italia, invece, solo ora si comincia a pensare che in fondo, in un quadro generale fortemente condizionato da fattori esterni e sui quali, come Paese, abbiamo ben poco da opporre (l'invasione russa dell'Ucraina; le turbolenze in Medio Oriente; le tensioni intorno al Corno d'Africa), forse cominciare a pensare che il nucleare non sia il male assoluto potrebbe quanto meno servire a non demonizzare aprioristicamente questo argomento. Che fa ancora paura, perché, solo per toccare un tema, il timore che non si sappia gestire i rifiuti radioattivi sembra essere una preclusione assoluta, quasi che il progresso sia fermo al 1987, anno del primo referendum, e non invece che da allora la tecnologia abbia fatto passi da gigante in tutti i campi, meno che in questo. Almeno limitatamente all'Italia, perché altrove si cammina, anzi si corre proprio.
Arrivati a questo punto potremmo dire tutto il bene possibile, o l'esatto contrario, sul nucleare, avendo però l'onestà di ammettere che la sua cancellazione dalla nostra agenda come Paese è stata frutto di un ragionamento politico, perché gli argomenti a suo tempo portati a sostengo del "no" sono talmente obsoleti da sembrare pura archeologia tecnologica.
E invece il progresso corre, sotto la spinta di un nucleo di studiosi, di scienziati, di tecnici che, paradossalmente, sono eccellenze in questo campo, ma sono costretti a "donare" la loro competenza ad altri Paesi.
Questo campo impone competenze elevatissime, soprattutto nel settore del trattamento dei rifiuti.

Per questo chi meglio di Gian Luca Artizzu, Amministratore Delegato di Sogin (la società pubblica che si occupa dello smantellamento degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi), può darci elementi di riflessione?
In un recente intervento, ospitato su Formiche, Artizzu, parlando della mission della Sogin, ha espresso alcuni concetti basilari per la comprensione della problematica.
A cominciare dal processo di decommisioning, cioè dello smantellamento degli impianti messi fuori dal circuito della produzione di energia. Una attività, ha affermato, che impone alti standard di sicurezza per ogni singola fase del processo. Ma, a destare interesse, è quel che Artizzu dice quando afferma che "il complesso tessuto di norme e procedure del nucleare è ciò che più di ogni altro elemento contribuisce in maniera determinante a farne il settore più sicuro e meno inquinante nella produzione di energia, nonostante la propaganda ideologica avversa, comunque contraddetta da ogni statistica internazionale". Ma, per seguire al meglio le procedure, occorrono "competenze di elevato livello e complessità".

Cosa che, restando al nostro Paese, è garantito da operatori di livello accademico di eccellenze, che hanno scelto questo campo perché affascinati dalle sue prospettive.
Ma, come in molte cose, c'è sempre un "però".
Lasciamo dirlo ad Artizzu, quando parla di una "eccellente istruzione accademica italiana, con iscritti in ingegneria nucleare in costante crescita negli ultimi anni, formazione talmente apprezzata all'estero da costituire un sicuro percorso di fuga dei cervelli di investimenti sostenuti per formarli. Ciò contribuisce a dimostrare che il nucleare in Italia è in realtà più che vivo, ma a vantaggio dei sistemi altrui. Continueremo a farci del male?".
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