Lo Stato imprenditore è ancora una bestemmia?

- di: Diego Minuti
 

La crisi provocata dal Covid-19 è sotto gli occhi di tutti e, in queste settimane, in cui i numeri sono drammatici, è tutto un rincorrersi di proposte, suggerimenti, ammonimenti da chi ritiene di avere le risposte ai quesiti che si pongono nella disperata ricerca di una strada per uscire dall'emergenza. 

È giusto che chi crede di avere la ricetta vincente la promuova, nelle forme di cui è capace, per farla giungere alla maggior parte dell'opinione pubblica, ma soprattutto a chi deve decidere. Un ruolo, quest'ultimo, scomodo per tutti per il banale motivo che se si sbaglia oggi i margini per correzioni sono praticamente inesistenti. Ma, in questa ridda di ipotesi, scenari e modelli matematici, mi pare non si consideri il ruolo che potrebbe avere lo Stato, non quello che è chiamato a guidare politicamente il Paese verso la ripresa. Parlo dello Stato imprenditore di cui in tanti parlano male o auspicano l'ulteriore defilarsi dal panorama economico del Paese. Tenendo, ovviamente, nella giusta considerazione i fallimenti del passato, frutto soprattutto di spericolate operazioni in cui l'imprenditoria poco o nulla c'entrava, ma a sostenerle erano interessi esclusivamente politici. Come testimoniano i vari scheletri, ormai archeologia industriale, che ancora offendono il nostro territorio. 

I numeri degli effetti dell'emergenza lasciano poco spazio ad avventurismi (che pare facciano capolino specialmente nei ragionamenti di chi disegna strane commistioni pubblico-privato, con il primo a farsi carico quasi esclusivo del rischio) che sembrano alimentate, più che dalla consapevolezza della gravità del momento, dalla voglia di dimostrare la percorribilità di strade già battute in passato, senza grandi risultati.

So di stare per tirarmi addosso chissà quante critiche, ma mi chiedo se è giunto il momento di ammettere che lo Stato quando fa l'imprenditore lo sa fare bene, almeno quasi sempre. E chiedere oggi allo Stato di rimettersi addosso giacca e cravatta per fare l'imprenditore, di sedere al board di aziende importanti avendo il controllo delle azioni che contano, è ancora una bestemmia, come sostengono da sempre i fautori del liberismo esasperato?

Guardiamo a due casi che rappresentano concretamente (ovvero con numeri, dati e, soprattutto, bilanci di esercizio) questa ipotesi. 

Lo Stato - nelle forme che gli sono consentite - ha il controllo di molte aziende, come Ferrovie e Fincantieri, dove, pur rispettando le sue finalità sociali, fa impresa. Investe, sviluppa e guadagna. 

Al netto dell'Europa, che nega (in particolare a noi, con altri Paesi è più morbida, quasi accondiscendente) gli aiuti di Stato, l'Italia ha un patrimonio che non può disperdere, come sono le grandi imprese - cruciali per il nostro sistema infrastrutturale - che, alla fine della crisi, rischiano d'essere vendute con tutti i rischi comportano queste operazioni. Dove quasi sempre le promesse, gli intendimenti, le speranze sbandierate all'atto dell'acquisto si perdono per strada, nel fumo di strane operazioni finanziarie, con cessioni, spacchettamenti, spezzatini e quant'altro della proprietà. 

Penso al futuro del settore dell'acciaio italiano che, fondamentale per il nostro sistema, sembra interessare solo in occasione delle giuste proteste di maestranze e sindacati, mancando di quella visione di prospettiva di cui non si può fare a meno nell'era della globalizzazione. Perdere l'acciaio non significa vedere soltanto e dolorosamente sulla strada migliaia di persone, la maggior parte delle quali ad alta qualificazione professionale, ma dovere accedere a mercati e produttori stranieri che userebbero questa opportunità come un ennesimo grimaldello per accaparrarsi, a prezzo di liquidazione, le nostre eccellenze. Non riesco a pensare che lo Stato possa fare da spettatore a questa situazione, esercitando solo la funzione di controllo sul mantenimento dei livelli occupazionali e non invece diventando protagonista e non solo arbitro (peraltro di parte).

I manager di Stato ci sono e laddove non ce ne fossero di adatti si potrebbe andare sul mercato, chiedendo ai “cacciatori di test”, agli headhunter, di trovare i profili adatti. Ai quali offrire contratti confacenti al loro livello di preparazione ed esperienza, con traguardi da raggiungere sapendo che al primo risultato negativo possono saltare. Pagati bene per raggiungere gli obiettivi che si pone il “padrone”, cioè lo Stato. 

Una scommessa per lo Stato, ma anche per i manager che devono accettare di mettersi in gioco. 

È un discorso difficile, forse visionario, almeno guardando a come chi comanda - quelli di oggi, di ieri, di ieri l'altro, ma anche di domani, e domani l'altro - riempie le caselle delle nomine nelle aziende di Stato, raramente premiando la competenza, ma solo l'essere espressione di questo o quel partito, o, come in casi recentissimi, di questo o quel piccolo comune, come Pomigliano d'Arco, dove, un liceo, l'Imbriani, sta sfornando manager a tutto spiano, mettendo in ombra l'Ena, la scuola dell'amministrazione francese che fornisce, dal 1945, il fior fiore della burocrazia.  

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