• Tutto con Bancomat. Scambi denaro, giochi ti premi.
  • Esprinet molto più di un distributore di tecnologia
  • Fai un Preventivo

Trump accende il rogo globale e caccia il Sudafrica dal G20

- di: Bruno Legni
 
Trump accende il rogo globale e caccia il Sudafrica dal G20
Trump accende il rogo globale e caccia il Sudafrica dal G20
L’esclusione di Pretoria dal vertice del 2026 a Miami, motivata con le accuse di “genocidio bianco” contro i bianchi sudafricani, è l’ennesimo fronte aperto da una Casa Bianca che sembra cercare il conflitto più che evitarlo: il G20 si spacca, il Sud globale si allontana e l’America che un tempo garantiva l’ordine mondiale si trasforma nella potenza che alimenta la crisi, lasciando un Paese e un pianeta stremati.

Donald Trump ha scelto ancora una volta la via della rottura. In un post su Truth Social, il presidente statunitense ha annunciato che il Sudafrica non sarà invitato al G20 del 2026, in programma a Miami, e che tutti i trasferimenti finanziari e i sussidi americani verso Pretoria verranno interrotti. Al centro della decisione, formalmente, ci sono le presunte “orribili violazioni dei diritti umani” contro gli afrikaner e altri discendenti dei coloni europei, accusando il governo sudafricano di chiudere gli occhi su un violento attacco contro la minoranza bianca.

In realtà, la mossa arriva dopo il boicottaggio americano del G20 di Johannesburg e dopo una dura polemica diplomatica sulla gestione del passaggio di presidenza del foro. E conferma una linea che appare sempre più chiara: Trump incendia i conflitti, dentro e fuori gli Stati Uniti, per potersi poi presentare come l’unico in grado di ristabilire l’ordine con la forza. Il prezzo lo pagheranno un Paese polarizzato e un sistema internazionale già allo stremo.

Un presidente che cerca il conflitto

La sequenza degli eventi è significativa. Prima la decisione di disertare il G20 del 2025 in Sudafrica, lasciando la sedia di Washington vuota nel principale tavolo di governance economica globale. Poi le accuse a Pretoria di aver “offeso” gli Stati Uniti rifiutando di trasferire simbolicamente la presidenza del G20 a un funzionario dell’ambasciata americana presente alla cerimonia finale, episodio ricostruito da diverse testate internazionali come uno scontro di protocollo trasformato in casus belli diplomatico.

Infine, il colpo di teatro: sul social di cui ha fatto la sua cassa di risonanza, Trump scrive che “il Sudafrica non riceverà un invito al G20 di Miami del 2026” e annuncia lo stop immediato a ogni forma di sostegno economico statunitense al Paese africano. Nel post, secondo i resoconti di media statunitensi e sudafricani usciti tra il 26 e il 27 novembre 2025, il presidente arriva a sostenere che in Sudafrica “stanno uccidendo i bianchi e permettono che le loro fattorie vengano confiscate”, riproponendo una narrativa già più volte rilanciata dal suo entourage.

Non è solo una scelta di politica estera: è un tassello di una strategia più ampia basata sulla costruzione di “nemici” interni ed esterni. Il Sudafrica diventa, in questo schema, un perfetto bersaglio simbolico: governo guidato da un partito nero, membro del G20, interlocutore del Sud globale e partner – seppure con molte ambivalenze – di Cina e Russia. Colpire Pretoria significa mandare un messaggio al mondo: o vi schierate con Washington, oppure sarete indicati come complici di violenze, abusi, “genocidi” da punire con l’arma delle sanzioni e dell’isolamento.

Il caso Sudafrica e la linea del nemico interno

La decisione su Miami non nasce nel vuoto. Da mesi la Casa Bianca di Trump porta avanti una campagna durissima contro il governo di Cyril Ramaphosa. Nel 2025, durante un incontro alla Casa Bianca, il presidente americano ha mostrato al suo omologo sudafricano un video del leader radicale Julius Malema che intona slogan violenti contro i boeri, presentandolo come prova di un presunto disegno genocidario ai danni dei bianchi. Ramaphosa ha respinto con fermezza quelle accuse, ricordando che “la violenza colpisce tutte le comunità sudafricane” e che la politica ufficiale del Paese resta ancorata ai principi della non-discriminazione e dello Stato di diritto.

Nel frattempo, l’amministrazione Trump ha modificato le priorità del sistema di asilo e dei visti umanitari, dando corsia preferenziale a gruppi di sudafricani bianchi che denunciano persecuzioni politiche e violenze mirate. Media statunitensi e sudafricani hanno documentato l’ingresso negli USA di piccoli gruppi di richiedenti asilo afrikaner, trattati dalla destra trumpiana come simbolo di una “minoranza occidentale assediata” in un Paese africano governato dall’ANC.

Questa narrativa si inserisce in un filone già noto: sin dal 2018, settori dell’ultradestra internazionale sostengono l’esistenza di un “genocidio dei bianchi” in Sudafrica, usando statistiche selezionate e casi di cronaca per alimentare una campagna identitaria. All’epoca, lo stesso Trump aveva twittato sui “grandi massacri di agricoltori” dopo un servizio del conduttore conservatore Tucker Carlson. Fact-checking indipendenti e rapporti di organizzazioni per i diritti umani hanno però evidenziato che, pur in un contesto di criminalità violenta gravissima, non esistono prove di un piano sistematico per sterminare i proprietari terrieri bianchi.

La narrativa del “genocidio bianco” smentita dai dati

Le cifre disponibili raccontano una realtà diversa da quella evocata dalla Casa Bianca. Ricercatori, istituti indipendenti e lo stesso ambasciatore americano in Sudafrica hanno negli anni sottolineato che gli omicidi di agricoltori – bianchi e neri – si inseriscono in un quadro di violenza generalizzata, dove le vittime e i carnefici appartengono a gruppi diversi, e dove spesso entrano in gioco rapine, conflitti locali, tensioni sociali radicate.

Un’analisi pubblicata nel 2025 da media statunitensi specializzati in fact-checking e da think tank che monitorano i diritti umani nel Paese ha concluso che definire la situazione dei bianchi sudafricani come “genocidio” è “impreciso e fuorviante”. La stessa espressione è stata respinta dal governo di Pretoria, che ha parlato di “accuse infondate” e ha promesso di “affrontare il tema delle violenze in modo non razzializzato, proteggendo tutti i cittadini”.

Eppure, questa narrativa trova terreno fertile in una parte dell’opinione pubblica occidentale, soprattutto a destra, dove il Sudafrica viene usato come laboratorio simbolico di una presunta “sostituzione” del mondo bianco. Nel racconto trumpiano, l’immagine delle fattorie confiscate e dei coloni europei “cacciati” serve a mobilitare paure profonde: la perdita di status, il declino dell’“Occidente”, la vendetta della storia contro chi ha beneficiato di secoli di dominio coloniale.

Che questa ricostruzione sia priva di fondamento statistico e giuridico, poco importa a una politica che si nutre di emozioni e di nemici immaginati. L’obiettivo non è descrivere il Sudafrica com’è, ma usarlo come specchio deformante per parlare all’America di Trump.

Un G20 trasformato in arma politica

L’esclusione di Pretoria da Miami non è solo un affronto bilaterale: è un colpo al G20 come piattaforma di cooperazione globale. Fin dalla sua nascita, il foro ha funzionato sulla base di un principio informale ma chiaro: si discute e si litiga, ma tutti i membri siedono al tavolo. Neppure la Russia è mai stata formalmente espulsa, nonostante le sanzioni e le condanne per le guerre in Ucraina.

Spezzare questo principio, decidendo che un membro “non è degno” di partecipare, significa trasformare il G20 in una arena di esclusioni a geometria variabile. I primi segnali di allarme sono già arrivati: diplomatici sudafricani hanno lasciato intendere che alcuni Paesi del Sud globale potrebbero boicottare il vertice in Florida se Pretoria venisse davvero tenuta fuori. Anche in Europa cresce il disagio: rendere il G20 un club a ingresso controllato dal padrone di casa americano significa legittimare domani altre esclusioni, magari in direzioni meno gradite alle capitali occidentali.

La scelta di ospitare il summit al resort di proprietà di Trump nell’area di Miami, già criticata per il conflitto di interessi mai davvero risolto, accentua la sensazione di una politica estera personalizzata, in cui le grandi questioni globali – clima, debito, sviluppo, sicurezza – vengono subordinate alla costruzione del personaggio e alla mobilitazione elettorale interna.

Intanto, il gesto verso il Sudafrica apre un fronte di tensione anche all’interno del mondo occidentale: il Paese è partner chiave per molti Stati europei, per l’India, per la stessa Cina. Escluderlo dal G20 significa spingerlo ancora più vicino a quei blocchi alternativi – dai Brics all’espansione della cooperazione con Pechino e Mosca – che puntano da anni a costruire un ordine post-americano.

L’America che garantiva l’ordine non c’è più

Per decenni, gli Stati Uniti si sono presentati come architetti e garanti dell’ordine multilaterale. Con tutte le contraddizioni del caso – guerre unilaterali, colpi di mano, interessi nazionali anteposti ai principi – Washington era comunque il perno attorno a cui ruotavano regole, istituzioni, alleanze. Oggi, con la nuova stagione trumpiana, quell’immagine appare capovolta.

L’America non è più la potenza che spegne gli incendi, ma quella che li accende. Dall’uscita dagli accordi internazionali sul clima e sul commercio alle campagne contro le organizzazioni multilaterali, fino alle minacce agli alleati europei perché aumentino senza condizioni le spese militari, il filo conduttore è chiaro: indebolire i meccanismi di cooperazione, sostituirli con rapporti di forza bilaterali, usare sanzioni, dazi, esclusioni come strumenti quotidiani di pressione politica.

L’episodio del Sudafrica si iscrive esattamente in questo schema. Non interessa correggere un’eventuale violazione dei diritti umani – che, peraltro, i dati non confermano – ma costruire una crisi che consenta di brandire il linguaggio dell’“ordine” contro un nemico designato. Domani potrà toccare a un altro Paese africano, a un partner latinoamericano, a un governo europeo giudicato troppo tiepido. La logica è quella del divide et impera: spaccare il fronte del Sud globale, mettere alla prova la fedeltà degli alleati, costringere tutti a schierarsi.

Un mondo e un Paese stremati alla fine della stagione trumpiana

A forza di incendiare dossier, però, il rischio è che alla fine del ciclo trumpiano gli Stati Uniti lascino dietro di sé un mondo più instabile e un’America più debole. Il G20 impoverito, l’ONU marginalizzato, le alleanze tradizionali attraversate da diffidenza, il Sud globale spinto verso altre sponde: tutto questo non scompare con un cambio di amministrazione, ma resta sedimentato nei ricordi e nelle scelte di governi e opinioni pubbliche.

Anche sul fronte interno, l’immagine di un presidente che parla di “genocidi” dei bianchi in Paesi lontani serve a rinforzare una politica identitaria di paura: gli afroamericani, i migranti, le minoranze diventano il riflesso domestico di un Sudafrica trasformato in incubo. Emergono così due Americhe sempre più inconciliabili, con istituzioni logorate e una fiducia reciproca ai minimi storici.

Quando questa stagione si chiuderà, l’America non potrà semplicemente tornare a proclamarsi “leader del mondo libero” come se niente fosse. Una parte del danno è già fatta: il messaggio lanciato al pianeta è che gli Stati Uniti non sono più un attore prevedibile e affidabile, ma una potenza capace di usare la clava del proprio peso economico e militare per punire chiunque sfidi – o semplicemente non assecondi – la narrativa del momento.

In questo senso, l’esclusione del Sudafrica dal G20 di Miami non è un incidente circoscritto. È un segno di declino: quello di una potenza che, non sapendo più convincere con la forza del proprio modello, sceglie di comprimere il campo da gioco, eliminando arbitrariamente gli altri giocatori. Il risultato, però, è un tavolo sempre più vuoto e un incendio sempre più difficile da contenere.

Mentre il mondo guarda a Miami chiedendosi quanti Paesi siederanno davvero a quel tavolo, una cosa è già chiara: l’America dell’ordine mondiale che conoscevamo è finita. Al suo posto avanza una superpotenza nervosa, pronta a usare il fuoco della polarizzazione e delle esclusioni, dentro e fuori i propri confini. Quando le fiamme si abbasseranno, ciò che resterà sarà un pianeta più diviso e un’America più sola.

Notizie dello stesso argomento
Trovati 31 record
Pagina
6
28/11/2025
Orbán assediato dai mercati cerca lo scudo di Trump
Viktor Orbán affronta deficit in crescita, rendimenti elevati e rischio di declassamento d...
Trovati 31 record
Pagina
6
  • Con Bancomat, scambi denaro, giochi e ti premi.
  • Punto di contatto tra produttori, rivenditori & fruitori di tecnologia
  • POSTE25 sett 720