Governo e Ministri "tecnici"

- di: Nikolaus W.M. Suck
 

Una riflessione su un argomento di attualità “prospettiva”, a pochi giorni dalle elezioni. Ovvero, il credito attribuito ai Governi e Ministri “tecnici”, individuati in persone con competenze specialistiche e professionali nei vari settori di intervento. L’idea di fondo, “le persone giuste al posto giusto”, sembrerebbe buona. Al punto da risultare diffusamente una soluzione logica o addirittura necessitata. Ma è davvero così? In via generale e astratta, forse, sì. Ma con riferimento concreto al modello politico, amministrativo e burocratico vigente, in realtà si tratta di una distorsione, derivante a sua volta da due distorsioni più a monte, dell’assetto costituzionale come teoricamente vigente. Nell’architettura formale del sistema, Governo e Ministri rientrano negli organi politici e rappresentano il potere esecutivo. Hanno il compito di appunto eseguire, cioè attuare le scelte derivanti dalla legislazione del Parlamento rappresentativo dei cittadini, mediante una politica con esse coerente. Per questo deve avere la fiducia dello stesso Parlamento, raccordo indiretto con la comunità (con cui, invece – è bene ricordarlo a fronte di diffusi riferimenti a Premier e/o premierati designati dai cittadini – non vi è nessun rapporto diretto).
Il potere esecutivo agisce tramite la pubblica amministrazione, un apparato burocratico stabile e professionale di uffici e funzionari pubblici, amministrativi (che conoscono e applicano norme e procedimenti) e tecnici (che conoscono e applicano le regole scientifiche di settore), e improntato ai principi dell’operato imparziale, del buon andamento e del concorso per la selezione dei più idonei alle funzioni, amministrative e/o tecniche, da svolgere.

Questo quindi il modello: il Parlamento rappresentativo dei cittadini ed espressione mediata della loro volontà fissa le regole, sia di disciplina degli organi di governo, amministrativi e burocratici, sia sostanziali che dettano norme da applicare nei vari ambiti. Il Governo le attua con le sue politiche, unitariamente (Consiglio dei Ministri e Presidente del Consiglio) e nei vari settori (Ministri e Ministeri). La pubblica amministrazione è “braccio operativo” nell’attuazione delle politiche e, con esse, delle volontà legislative, ma non di volontà o decisioni del Governo. L’esigenza di competenze specialistiche e professionali, ovvero di “tecnici” che le abbiano, si avverte all’inizio e alla fine del percorso, in seno al Parlamento chiamato a creare le regole e per i funzionari pubblici, amministrativi e tecnici, che operano nel contesto sociale. Governo e Ministri, invece, dovrebbero essere rappresentati non da tecnici ma per definizione da politici, esperti nel tradurre in politiche attuative le scelte di merito contenute nelle leggi. Tanto che, per gli ausili propriamente tecnici di cui possano necessitare, l’ordinamento ha diversi altri soggetti appositi (come le Agenzie o le Autorità indipendenti).

Perché, allora, Governi e/o singoli Ministri “tecnici”? Per almeno tre ragioni, abbiamo detto, che derivano l’una dall’altra e si rincorrono in un circolo tutt’altro che virtuoso di altrettante forzature di spazi costituzionali. Valutazione, questa, tecnico-giuridica e scevra da connotazioni ideologiche.

Primo, il ruolo di fatto che è andato assumendo il potere esecutivo, diverso da quello disegnato dalla Costituzione. Con il ricorso sistematico e continuo al disegno di legge governativo (in luogo del progetto di legge di iniziativa parlamentare immaginato come regola) anche per le leggi delega, al decreto legge non solo per necessità e urgenze (l’“abuso del decreto legge” noto da decenni), agli emendamenti governativi, e al meccanismo della fiducia per forzare l’approvazione parlamentare, il Governo non solo condiziona ma determina con i propri atti le agende parlamentari e ha finito per appropriarsi di un potere normativo sostitutivo di quello ormai solo formalmente legislativo. Logico, quindi, che nella misura in cui provvede ormai esso alle scelte normative, la competenza richiesta sia non più politica, ma tecnica. La stortura che ne risulta non è solo formale ma pure sostanziale. Un tecnico di settore tenderà infatti a rappresentare e considerare in primo luogo l’ambito professionale e sociale da cui proviene, prima di un indirizzo politico unitario del Parlamento, nell’interesse dell’ordinamento complessivo. E che ciò avvenga a livello esecutivo non è solo sbagliato ma contrario a ratio e norme della Costituzione.

Seconda ragione è il connesso mutamento di ruolo e funzioni del Parlamento e dei suoi componenti, non scelti dalla e nella società, dai cittadini e nei loro territori, ma imposti centralmente, dagli enti intermedi che sono i partiti politici, con logiche e meccanismi di selezione secondo equilibri di potere interno ed esterno; e che non elaborano né approvano atti propri ma in prevalenza ratificano formalmente atti provenienti appunto dal Governo, che perciò si vorrebbe anche (anzi – ma la deriva è proprio questa – soprattutto) “tecnico”.

Terza, ma forse in realtà prima, ragione, è l’evoluzione del ruolo dei partiti. La Costituzione li prevede non come organi politici e di governo (che sono nella Parte Seconda) ma come formazioni sociali dei cittadini (nella Parte Prima). Li aveva disegnati come associazioni organizzate democraticamente (sia esternamente che internamente) per concorrere a determinare la politica nazionale. Non come apparati burocratici autosufficienti e autoreferenziali per la gestione del potere politico e la selezione di politici professionali. Ciò che, invece, sono diventati, anche nella percezione dei cittadini. Con risultati – ancora una volta non solo teorici ma anche pratici – che si sono visti e si vanno vedendo.

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