Il nuovo rapporto Migrantes archivia il modello Albania come esperimento ai margini della democrazia e certifica l’Italia fanalino di coda in Europa nell’accoglienza dei rifugiati.
Che cosa c'è nel rapporto Migrantes
La Fondazione Migrantes, organismo della Conferenza episcopale italiana che monitora ogni anno il diritto d’asilo, nel dossier diffuso il
9 dicembre 2025 non usa mezzi termini: il modello Albania viene descritto come un dispositivo “ai margini della democrazia” e
un “paradigma delle nuove forme di esternalizzazione del controllo migratorio e della detenzione amministrativa”.
Al centro della critica c’è l’idea di spostare la gestione dei migranti soccorsi in mare in strutture extraterritoriali, lontane dalla società civile e dal controllo dei media,
mantenendo però la piena giurisdizione italiana. Una combinazione che, secondo i vescovi, moltiplica i rischi di opacità, violazioni dei diritti e abuso della detenzione amministrativa.
Il rapporto non si ferma alla denuncia morale: incrocia statistiche europee, dati dell’UNHCR e numeri del Ministero dell’interno e dell’Unione europea,
mostrando come la narrazione dell’“emergenza perenne” non regga più di fronte a un quadro in cui i flussi irregolari sono in calo, ma la risposta politica resta
sbilanciata su chiusura, esternalizzazione e respingimenti.
Che cosa prevede davvero il modello Albania
Il protocollo Italia–Albania, firmato a Roma nel novembre 2023 e operativo dal 2024, prevede due centri sul territorio albanese, a Shëngjin (hotspot di sbarco) e
Gjadër (struttura di trattenimento). In linea teorica, le strutture dovrebbero ospitare migranti soccorsi in mare da unità italiane, prima che mettano piede in Italia,
per svolgere lì identificazione, pre–screening delle domande di asilo ed eventuali rimpatri.
Nei piani del governo, i centri possono arrivare ad accogliere fino a 3.000 persone contemporaneamente, per un potenziale di circa 36.000 procedure l’anno,
grazie a iter accelerati pensati per i casi ritenuti “manifestamente infondati”. Stime e analisi sui costi elaborate da istituti indipendenti hanno evidenziato una spesa complessiva
nell’ordine di centinaia di milioni di euro per pochi anni di operatività effettiva.
Nella retorica politica, l’operazione è stata presentata come un “modello europeo” destinato a fare scuola: un sistema che unisce fermezza sui confini e rispetto delle norme internazionali,
destinato a essere inglobato nel nuovo Patto Ue su migrazione e asilo. Ma per Migrantes la distanza tra slogan e realtà è abissale.
Dopo una partenza lentissima, con trasferimenti simbolici e strutture semivuote, il progetto è stato travolto da ricorsi, pronunce della Corte costituzionale italiana e decisioni della Corte di giustizia Ue
che hanno messo in discussione la legittimità del trattenimento e delle procedure accelerate in territorio albanese.
Diversi paesi europei hanno guardato con interesse al modello, ma proprio le criticità giuridiche emerse lo rendono oggi più un caso di scuola negativo che un’esperienza da imitare.
Perché Migrantes parla di democrazia al limite
Il cuore della stroncatura dei vescovi sta in quattro elementi.
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Esternalizzazione del controllo: invece di rafforzare il sistema d’asilo europeo, si spostano le persone in aree periferiche,
riducendo la possibilità di un controllo diffuso da parte di giornalisti, avvocati e associazioni.
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Opacità informativa: l’accesso di società civile e media è limitato, i dati su numeri, tempi di permanenza e condizioni di vita arrivano spesso in ritardo e in modo frammentario.
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Detenzione amministrativa come regola: la privazione della libertà diventa lo strumento standard per gestire persone che non hanno commesso reati,
ma solo esercitato il diritto di chiedere protezione.
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Efficacia politica, non reale: i rimpatri effettivi restano pochi, mentre l’operazione funziona soprattutto come messaggio simbolico
agli elettori interni e agli altri partner europei.
In questo quadro, scrive Migrantes, i centri in Albania non sono un “mostro isolato”, ma il punto più avanzato di un processo che spinge sempre più in là
la soglia di ciò che l’Europa è disposta ad accettare in materia di diritto d’asilo, garanzie procedurali e divieto di trattamenti inumani o degradanti.
Italia, fanalino di coda nell'accoglienza dei rifugiati
Se si guardano i numeri, l’immagine dell’Italia come paese “invasa” dai rifugiati è smentita dagli stessi dati raccolti da Migrantes su base Eurostat e UNHCR.
All’inizio del 2025, in Italia vivono circa 484.000 cittadini non comunitari titolari di un permesso di soggiorno per protezione o asilo,
pari a poco più dello 0,8% della popolazione residente. Si tratta di un aumento del 17% rispetto all’anno precedente, ma pur sempre di una quota che colloca il paese
in coda alle grandi democrazie europee.
In termini assoluti, l’Italia è staccata da Germania, Francia, Polonia, Regno Unito e Spagna, mentre se si guarda alla proporzione rispetto agli abitanti viene superata anche da
Svezia, Grecia, Bulgaria e da altri paesi con popolazione inferiore. Il paradosso, sottolinea il rapporto, è che il dibattito pubblico italiano vive in perenne emergenza,
pur essendo uno dei paesi che accoglie meno.
Sul fronte degli arrivi, Migrantes segnala che tra gennaio e ottobre 2025 sono sbarcate in Italia circa 59.000 persone, circa il 7% in meno rispetto allo stesso periodo del 2024.
Nello stesso arco di tempo, a livello di Unione europea allargata i flussi irregolari agli ingressi esterni sono diminuiti di oltre un quinto rispetto al 2024, confermando un trend di calo già in corso dal 2023.
Il problema, osserva il rapporto, non è dunque l’“invasione” ma la capacità del sistema di gestire e integrare chi arriva:
procedure lumaca per l’esame delle domande, un sistema di accoglienza spesso emergenziale, pochi posti nei progetti di integrazione Sai, chiusura o ridimensionamento dei corridoi umanitari.
Ucraini in Europa, sempre meno ottimisti sul ritorno
Un intero capitolo è dedicato a quanti sono fuggiti dalla guerra in Ucraina. Secondo i dati citati da Migrantes, alla metà del 2025 l’insieme dei paesi Ue,
insieme a Svizzera, Norvegia, Islanda e Liechtenstein, ospita circa 4,5 milioni di profughi ucraini con protezione temporanea.
In testa restano Germania e Polonia, mentre in Italia si contano circa 170.000 persone.
Il dato più allarmante riguarda le aspettative per il futuro: la quota di chi pensa di poter tornare a casa prima o poi è scesa, nel giro di poco tempo,
da circa il 77% a poco più del 60%. Per Migrantes è il segnale di una guerra che si prolunga e di una ricostruzione percepita come lontana,
che spinge sempre più persone a immaginare una vita definitiva altrove.
L'Europa che esternalizza: dal modello Albania ai paesi terzi
La stroncatura dei vescovi colpisce il modello Albania, ma il bersaglio è più ampio: il dossier inquadra l’esperienza italo–albanese dentro una strategia europea che punta in modo crescente
sull’esternalizzazione.
Il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo, approvato nel 2024 e destinato a entrare pienamente in vigore nel 2026, introduce la possibilità per gli Stati membri di istituire
“hub di rimpatrio” in paesi terzi per le persone a cui è stata negata la protezione. L’idea di fondo è rendere più rapidi i rimpatri e disincentivare le partenze,
ma le organizzazioni per i diritti umani avvertono che si apre così la strada a zone franche del diritto.
Il rapporto cita anche gli accordi con paesi come la Tunisia, dove le denunce di respingimenti collettivi nel deserto hanno alimentato l’immagine di veri e propri
“lager a cielo aperto” finanziati, direttamente o indirettamente, con fondi europei. In questo mosaico, il modello Albania rappresenta un laboratorio particolarmente visibile.
Lo specchio americano: la stretta di Trump sull'asilo
Per spiegare quanto sia fragile il diritto d’asilo, Migrantes guarda anche agli Stati Uniti.
Nel secondo mandato di Donald Trump, una serie di ordini esecutivi ha stravolto il sistema: sospensione degli ingressi per i richiedenti asilo alla frontiera sud,
nuovi travel ban che colpiscono 19 paesi, restrizioni sempre più rigide alle possibilità di richiesta di protezione.
Analisi dell’American Immigration Council e di reti come AILA parlano di una “demolizione controllata” del sistema d’asilo,
con percorsi legali sempre più stretti e un’idea di fondo molto simile a quella che emerge nel dibattito europeo: rendere l’accesso alla protezione talmente arduo e rischioso
da trasformarlo in un’eccezione per pochi.
Per la fondazione della Cei, la lezione americana è chiara: se un paese con una lunga tradizione di accoglienza può cambiare rotta in così poco tempo,
lo stesso può succedere in Europa se l’esternalizzazione e la logica dei muri diventano la nuova normalità.
La voce della Chiesa italiana
La posizione di Migrantes si inserisce nel solco tracciato da papa Francesco, che da anni denuncia come sia un “peccato grave” respingere chi cerca protezione
e trasformare mare e deserti in cimiteri per migranti. Nei suoi interventi, il pontefice invita i paesi europei a scegliere la strada dei corridoi umanitari, dei canali legali
e dell’accoglienza diffusa.
Nel rapporto 2025 la Chiesa italiana rivendica il lavoro quotidiano di parrocchie, Caritas, associazioni e comunità religiose,
che continuano ad accogliere anche quando la normativa nazionale riduce i fondi o irrigidisce i requisiti.
Il documento raccoglie decine di esperienze locali, dai piccoli comuni che hanno aderito ai progetti Sai alle reti di famiglie che ospitano rifugiati ucraini, afghani, siriani.
La richiesta alla politica è esplicita: archiviare la stagione dei provvedimenti emergenziali e dei modelli “offshore”, rafforzare gli strumenti ordinari di asilo,
investire sull’integrazione e considerare le persone in fuga non come un problema da spostare altrove, ma come titoli viventi di diritti fondamentali.
Che cosa è in gioco per l'Italia e per l'Unione europea
Dietro la formula “modello Albania” non c’è solo una controversia tecnica su competenze, giurisdizioni e costi.
Per Migrantes, in gioco c’è il profilo democratico dell’Europa e, nello specifico, il modo in cui l’Italia sceglie di collocarsi dentro questa stagione di cambiamenti.
Da un lato, il paese viene descritto come fanalino di coda nell’accoglienza, poco propenso a condividere con altri stati il proprio passato di emigrazione e la propria esperienza di società mista.
Dall’altro, è tra i più attivi nel promuovere politiche di esternalizzazione e deterrenza, presentandole come soluzioni moderne e inevitabili.
I vescovi rovesciano la prospettiva: il vero banco di prova non è quanti centri si riescono ad aprire fuori dai confini nazionali, ma quanto una democrazia sia capace di
garantire diritti, procedure trasparenti e controllo pubblico proprio nei momenti in cui la paura e l’insicurezza spingerebbero verso scorciatoie autoritarie.
La scelta, suggerisce il rapporto, è più netta di quanto sembri: o un’Europa che si abitua a trattare i rifugiati come un fastidio da allontanare,
o un continente che, pur tra mille difficoltà, continua a riconoscere nell’asilo un pilastro della propria identità democratica.
L’Italia, con la sua storia di partenze e arrivi, è chiamata a decidere da che parte stare.