Quella che si apre lunedì sarà una settimana chiave per le banche centrali: da Washington a Sydney, passando per Zurigo e Ankara, i mercati cercano una nuova bussola di politica monetaria.
(Foto: Kevin Hassett, probabile nuovo presidente della Fed al posto di Powell).
Fed al centro della scena globale
I mercati entrano nella nuova settimana con un’idea ben precisa: la riunione della Federal Reserve del 10 dicembre sarà il vero snodo di fine anno. Gli operatori danno ormai per scontato un nuovo taglio dei tassi di 25 punti base, il terzo consecutivo, dopo le mosse di allentamento di ottobre e novembre.
Più del gesto in sé, però, conteranno le indicazioni di prospettiva: nella serata statunitense arriveranno le nuove proiezioni macroeconomiche della banca centrale, il cosiddetto “dot plot” sui futuri livelli dei fed funds e, soprattutto, la conferenza stampa del presidente Jerome Powell, chiamato a spiegare come la Fed intenda bilanciare un’inflazione in rientro con un mercato del lavoro che mostra segni di affaticamento.
La posta in palio è chiara: se il messaggio verrà interpretato come molto accomodante, i mercati azionari potrebbero rafforzare il mini rally di fine anno, mentre rendimenti e dollaro resterebbero sotto pressione. Un tono più cauto, al contrario, raffredderebbe le scommesse su ulteriori tagli nel 2026.
Che cosa si aspettano i mercati dalla Fed
Le quotazioni sui derivati legati ai fed funds prezzano con ampia probabilità un taglio di un quarto di punto nella riunione di dicembre, con un corridoio dei tassi che scenderebbe nella fascia 3,50%-3,75%. È lo sbocco naturale di una sequenza in cui la Fed, dopo il lungo ciclo restrittivo, ha iniziato a invertire la rotta di fronte al raffreddamento di inflazione e crescita.
Gli investitori, più che sul dato puntuale, sono concentrati su quattro elementi chiave che emergeranno dalla riunione:
- Nuove stime di crescita, per capire quanto la Fed veda il rischio di rallentamento nel 2026.
- Proiezioni sull’inflazione, decisive per misurare la distanza dal target del 2%.
- Dot plot, cioè il numero di ulteriori tagli attesi nei prossimi anni.
- Tono della conferenza di Powell, che può accentuare o smussare la lettura del comunicato.
Nei verbali dell’ultima riunione è emersa una Fed divisa, con alcuni membri più concentrati sulla tenuta dell’occupazione e altri ancora preoccupati dal rischio di un ritorno delle pressioni inflazionistiche. Una spaccatura che potrebbe riflettersi in un voto non unanime anche questa volta.
Il dopo Powell: il rebus del nuovo presidente
Sullo sfondo della riunione di dicembre incombe un’altra partita, potenzialmente ancora più delicata: quella della successione alla guida della Federal Reserve. Il mandato di Jerome Powell scade a metà maggio 2026 e alla Casa Bianca è già iniziato il lavoro per individuare il prossimo presidente.
Secondo diverse ricostruzioni, Kevin Hassett, economista ed ex consigliere economico della Casa Bianca, è considerato uno dei favoriti nella corsa per il dopo Powell. Sui mercati è percepito come una figura decisamente accomodante, cioè tendenzialmente incline a mantenere i tassi più bassi più a lungo rispetto ad altri possibili candidati.
In una recente intervista, Hassett ha dichiarato di voler “arrivare a un livello di tassi molto più basso nel medio periodo”, aggiungendo che, se si consolidasse il consenso per un taglio da 25 punti base, si allineerebbe a questa posizione. Un messaggio letto dagli investitori come la conferma di un orientamento dovish, in linea con chi vorrebbe una Fed più focalizzata sul sostegno alla crescita che sul timore di un nuovo surriscaldamento dei prezzi.
Il solo fatto che Hassett sia dato in vantaggio ha già avuto effetti tangibili: i rendimenti dei Treasury a lunga scadenza hanno registrato movimenti bruschi e gli operatori stanno riprezzando gli scenari sui tassi a due-tre anni, immaginando una banca centrale più disponibile a tagliare in caso di rallentamento della congiuntura.
Come sottolinea più di un analista, la scelta del prossimo presidente della Fed non è un dettaglio tecnico ma un fattore politico-finanziario di prima grandezza, capace di modificare la traiettoria dei mercati globali per l’intero prossimo ciclo.
Altre banche centrali in movimento
La Fed catalizza l’attenzione, ma la settimana si annuncia intensa anche sul fronte delle altre banche centrali. Il calendario monetario è fitto:
- Australia – La Reserve Bank of Australia (Rba) si riunisce martedì. Dopo aver mantenuto il tasso di riferimento al 3,60% nella riunione di novembre, il mercato si attende una nuova pausa, alla luce di un’inflazione ancora superiore al target ma in progressivo rientro.
- Canada – La banca centrale canadese decide mercoledì. Anche qui lo scenario prevalente è di tassi invariati, mentre l’attenzione si concentra sulle indicazioni sull’andamento dei consumi e sul mercato immobiliare, molto sensibile all’evoluzione del costo del denaro.
- Brasile – Sempre mercoledì sarà il turno della banca centrale brasiliana, dopo un ciclo di tagli aggressivi che ha riportato i tassi reali su livelli più sostenibili. Gli investitori valuteranno se c’è spazio per nuove riduzioni o se è il momento di una pausa per misurare gli effetti già in corso sull’economia.
- Svizzera – Giovedì toccherà alla Swiss National Bank. Le ultime letture dell’inflazione elvetica, molto al di sotto dei livelli medi internazionali, fanno pensare a una conferma dell’attuale livello dei tassi, con l’istituto più preoccupato dal rafforzamento del franco che da un possibile ritorno di pressioni sui prezzi.
- Turchia – Sempre giovedì è attesa la decisione della banca centrale turca, dove il mercato non esclude un taglio anche molto consistente, fino a 150 punti base, per sostenere un’economia che rallenta e un’inflazione scesa recentemente sotto le previsioni.
Nel complesso, il quadro che emerge è quello di un mondo in cui molte banche centrali si stanno avvicinando a una fase più neutrale o leggermente espansiva, dopo un biennio di rialzi storici dei tassi. Ma le differenze regionali restano marcate e impediscono qualunque lettura semplicistica.
Cina tra inflazione bassa e crisi immobiliare
Un altro tassello cruciale della settimana arriva dalla Cina, con i dati su inflazione al consumo e prezzi alla produzione (Ppi). Da mesi il gigante asiatico si confronta con un contesto di prezzi estremamente deboli, alimentato da una crisi immobiliare che si protrae da anni.
Il Ppi cinese è in territorio negativo dal 2022, segnale di una pressione deflazionistica che si riflette sull’intera catena produttiva. Il deflatore del Pil è rimasto sotto zero per diversi trimestri, mostrando come la crescita nominale resti inferiore a quella reale: un’anomalia per un’economia che per decenni è stata sinonimo di rincari e domanda in espansione.
Le vendite di nuove abitazioni, secondo varie stime, sono attese in calo di circa l’8% nel 2025, con un mercato immobiliare che fatica a trovare un nuovo equilibrio nonostante gli interventi del governo su tassi ipotecari, incentivi alle costruzioni e misure di sostegno ai bilanci dei costruttori.
Per gli investitori globali il messaggio è duplice: da un lato, la Cina esporta meno inflazione e questo aiuta le banche centrali occidentali nel lavoro di rientro dei prezzi; dall’altro, una domanda cinese debole pesa sulle materie prime e sui conti delle economie più esposte alle esportazioni verso Pechino, Europa compresa.
Calendario macro: gli effetti dello shutdown Usa
Il quadro dei dati macroeconomici della settimana è condizionato dalle conseguenze del recente shutdown del governo federale statunitense, che ha temporaneamente bloccato la pubblicazione di diversi indicatori chiave.
Le autorità statistiche hanno rivisto il calendario delle uscite: per alcune serie i dati di ottobre non verranno più diffusi e saranno integrati con quelli di novembre, mentre per altre si è optato per la cancellazione delle pubblicazioni. Nel caso dell’inflazione, il dato di ottobre non sarà reso disponibile e quello di novembre è stato posticipato al 18 dicembre, concentrando in quella data l’attenzione dei mercati.
In questa settimana, quindi, il focus sui dati Usa sarà su indicatori importanti ma non di primissimo livello, tra cui:
- le aspettative di inflazione rilevate dalla Fed di New York;
- le statistiche JOLTS su offerte di lavoro e dinamica del mercato occupazionale;
- la pubblicazione dell’Employment Cost Index, utile per misurare la pressione salariale;
- le nuove cifre su sussidi di disoccupazione e bilancia commerciale.
Fuori dagli Stati Uniti, i riflettori saranno accesi su:
- Germania – Dati sulla produzione industriale e successivamente sull’inflazione armonizzata, fondamentali per capire la direzione della maggiore economia europea.
- Area euro – Indici di fiducia degli investitori, spesso sensibili alle attese sulla politica monetaria Bce.
- Italia – Lettura sulla produzione industriale e, più avanti nella settimana, aggiornamento sul tasso di disoccupazione.
- Regno Unito – Pubblicazione del Pil, test importante per una Banca d’Inghilterra che si avvicina a sua volta a decisioni di allentamento.
Tra Fed, banche centrali e dati: i possibili scenari per i mercati
La combinazione di una Fed vicina a un nuovo taglio dei tassi, di una serie di decisioni da altre banche centrali e di un flusso di dati macro ancora condizionato dallo shutdown crea una settimana ad alta intensità informativa.
Gli scenari principali che gli investitori stanno valutando possono essere sintetizzati così:
- Scenario base – La Fed taglia di 25 punti base e segnala un percorso di allentamento graduale nel 2026. I principali istituti centrali confermano un approccio prudente. In questo quadro, i mercati azionari potrebbero consolidare il “rally di Natale”, mentre i rendimenti obbligazionari resterebbero sotto controllo.
- Scenario più aggressivo – Segnali molto accomodanti dalla Fed, magari combinati con un ulteriore indebolimento dei dati cinesi, potrebbero spingere gli operatori a prezzare tagli più rapidi, con un calo deciso dei rendimenti e una rotazione verso i comparti più ciclici.
- Scenario di delusione – Un messaggio più prudente da Washington, o eventuali sorprese restrittive da parte di banche centrali considerate ormai vicine al picco dei tassi, frenerebbero l’entusiasmo e potrebbero riaccendere la volatilità su indici azionari, cambi e materie prime.
In ogni caso, la vera incognita che si allunga oltre la settimana resta la scelta del nuovo presidente della Fed. Da quel nome dipenderà in larga misura non solo la velocità del prossimo ciclo di tagli, ma anche il grado di indipendenza della banca centrale rispetto alle pressioni politiche interne. Ed è esattamente su questo punto che, già oggi, i mercati stanno iniziando a scommettere.