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Maga senza Trump: guerra interna e sprint verso il 2028

- di: Bruno Coletta
 
Maga senza Trump: guerra interna e sprint verso il 2028
Maga senza Trump: guerra interna e sprint verso il 2028

A AmericaFest esplode la resa dei conti: Ben Shapiro attacca Carlson e Bannon, mentre Erika Kirk punta tutto su JD Vance. Il “dopo” Trump si prepara con anni d’anticipo, tra ambizioni, sospetti e una domanda: chi comanda davvero la base?

La scena: AmericaFest come prova generale del post-Trump

La corsa alle presidenziali del 2028 è ancora lontana, eppure nel laboratorio della destra americana il futuro è diventato improvvisamente un’urgenza. A Phoenix, durante AmericaFest (l’appuntamento annuale di Turning Point USA), il movimento che per anni ha funzionato come amplificatore giovanile dell’universo MAGA ha mostrato una crepa che non è più sussurro di corridoio: è un confronto pubblico, frontale, spesso personalissimo.

Il contesto è delicato: l’evento arriva pochi mesi dopo l’assassinio di Charlie Kirk, fondatore e volto identitario di Turning Point USA. La sua assenza, per chi vive di palco e carisma, non è solo un vuoto emotivo: è una questione di comando, di linea politica, di “chi parla a nome di chi”.

L’endorsement che sposta l’aria: Erika Kirk “incorona” Vance

Nel cuore di questo clima arriva la mossa che incendia discussioni e chat interne: Erika Kirk, oggi alla guida dell’organizzazione e vedova di Charlie, si espone pubblicamente a favore del vicepresidente JD Vance.

Il messaggio è netto: Turning Point deve contribuire a portare Vance alla Casa Bianca come 48° presidente. Un’impostazione che suona come un’investitura anticipata, quasi una bandiera piantata nel terreno prima che inizi la vera battaglia delle primarie.

Il punto politico è doppio. Primo: Vance, almeno ufficialmente, non ha ancora lanciato la candidatura e ripete di voler restare concentrato sui passaggi elettorali più vicini. Secondo: un endorsement così esplicito, fatto dal palco più “giovane” e militante del conservatorismo, obbliga tutti gli altri a reagire. Anche solo per dire: “non è scontato”.

In parallelo rimbalza un altro dettaglio: Donald Trump, pur vincolato dal limite costituzionale dei mandati, nelle scorse settimane avrebbe ragionato ad alta voce su una possibile formula futura con Vance e il segretario di Stato Marco Rubio, descritta come politicamente “imbattibile”. Tradotto: nel mondo MAGA il 2028 è già un cantiere aperto.

Il ring: Shapiro contro Carlson e Bannon

Ma l’episodio che più di ogni altro fotografa la frattura interna non è un nome, bensì un litigio in piena luce. Dal palco, Ben Shapiro attacca Tucker Carlson e Steve Bannon con parole durissime, accusandoli di tradire i principi del movimento e di prosperare su complottismo e narrazioni “tossiche”.

Nel mirino finisce soprattutto Carlson: Shapiro lo accusa di offrire spazio a figure e storie considerate divisive persino da una parte del fronte conservatore. Carlson replica liquidandolo come un moralista presuntuoso, un personaggio “da ignorare”.

Su Bannon, invece, lo scontro assume tinte ancora più urticanti: viene rievocata la sua immagine accanto a Jeffrey Epstein, e l’argomento diventa un colpo di clava nel derby interno, proprio mentre negli Stati Uniti torna ciclicamente a esplodere la battaglia sulla trasparenza dei documenti legati al finanziere.

Risultato: l’arena MAGA diventa un talk show che litiga su chi è “vero”, chi è “infiltrato”, chi monetizza la rabbia e chi pretende di rappresentare l’ortodossia.

Due destre in una: la faglia che Trump teneva insieme

Sotto la superficie del battibecco c’è una questione strutturale: il collante Trump ha funzionato finché c’era un leader capace di unificare correnti diverse con un obiettivo semplice, spesso emotivo: vincere e dominare l’agenda. Ora però la domanda cambia: che cos’è il MAGA quando diventa eredità?

Da un lato c’è la destra mediatica e movimentista, che parla alla base con linguaggio di rottura e diffidenza verso istituzioni, alleanze e “establishment” (anche repubblicano). Dall’altro c’è una destra più “organizzata”, che punta a governare il partito, evitare scivoloni e trasformare l’energia populista in una macchina elettorale stabile.

In mezzo, un rischio che i dirigenti del GOP conoscono bene: la guerra intestina può entusiasmare gli ultras, ma può anche diventare una zavorra in vista delle midterm del 2026, quando ogni frattura nazionale finisce per trasformarsi in candidati fragili, campagne caotiche e collegi persi di misura.

Perché Vance piace: identità, lealtà e un vantaggio generazionale

In questo quadro, la figura di JD Vance ha un valore simbolico: è percepito come erede naturale perché unisce tre ingredienti che nel MAGA contano quanto (o più di) un programma: lealtà personale verso Trump, credibilità tra i militanti e capacità di muoversi dentro le istituzioni.

C’è anche un dato di prospettiva: Vance è relativamente giovane per gli standard della politica presidenziale americana. Se vincesse nel 2028, sarebbe il primo presidente millennial. Un cambio di generazione che, per una destra che parla spesso ai ventenni, è un messaggio in sé.

Ma l’endorsement di Erika Kirk, proprio perché arriva presto e in modo così definitivo, apre anche un altro capitolo: quanto peseranno i “grandi sponsor” del movimento — organizzazioni, influencer, piattaforme mediatiche — nel decidere chi ha diritto di cittadinanza nel post-Trump?

Il gossip come sintomo: quando la politica diventa romanzo

In parallelo alla politica dura, corre anche la corrente più liquida e inevitabile: social, meme, insinuazioni. La foto di un abbraccio tra Erika Kirk e JD Vance, diventata virale, ha alimentato speculazioni sul loro rapporto, fino a ipotesi fantasiose su matrimoni e ticket elettorali.

Letta con freddezza, questa parte “rosa” è meno banale di quanto sembri: indica quanto la cultura MAGA, oggi, sia costruita anche come intrattenimento politico. E quando l’intrattenimento entra nella successione del potere, la percezione può contare quasi quanto i fatti.

Che cosa succede adesso: il 2028 comincia nel 2026

Anche se la candidatura non è formalizzata, l’episodio di AmericaFest suggerisce una dinamica tipica della politica americana: le presidenziali iniziano quando qualcuno prova a controllare la narrazione. Qui il tentativo è evidente: trasformare Vance da vicepresidente in “destino”.

La controforza, però, è altrettanto evidente: un pezzo di mondo MAGA non vuole un erede unico, e teme che l’investitura “dall’alto” assomigli troppo a ciò che il movimento dice di combattere.

La partita vera, probabilmente, passerà dalle midterm: se il Partito Repubblicano arriverà al 2026 compatto e vincente, la successione sarà più ordinata. Se invece le faide diventeranno una macchina che produce solo scandali, accuse e purghe mediatiche, allora il 2028 potrebbe aprirsi come una primarie a colpi di dossier e scomuniche.

In una frase: Trump non è ancora uscito di scena, ma il MAGA si sta già comportando come un regno che discute la successione. E quando un regno discute la successione, le guerre iniziano sempre prima.

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