Il presidente venezuelano Maduro (foto) rivendica il dialogo, Trump alza la posta: esilio in cambio delle dimissioni e minaccia di raid.
Nel pieno di una delle fasi più tese delle relazioni tra Stati Uniti e Venezuela,
Nicolás Maduro ha confermato di aver parlato al telefono con Donald Trump.
Una chiamata che il leader di Caracas definisce «rispettosa e cordiale»,
mentre dalla Casa Bianca il tono è glaciale: per il presidente americano è stata «una telefonata,
né buona né cattiva». Sul tavolo, però, c’era il futuro di un intero Paese.
Una telefonata nata sotto pressione
La conversazione, avvenuta intorno al 21 novembre 2025, emerge inizialmente
attraverso indiscrezioni di stampa statunitense, poi viene implicitamente confermata da Trump e,
infine, ufficializzata da Maduro in tv. Secondo l’agenzia Reuters, che cita quattro
fonti informate, il contatto era stato preparato da giorni, nel mezzo di un’escalation fatta di
sanzioni, chiusura dello spazio aereo venezuelano e minacce di azioni di terra.
Maduro, intervenendo alla televisione di Stato e poi ripreso dall’agenzia Ansa,
racconta di un colloquio dal tono «rispettoso» e persino «cordiale» e lo presenta come
un possibile inizio di un dialogo «da Stato a Stato».
Rivendica la propria “prudenza diplomatica” e insiste sul fatto che,
quando le questioni sono delicate, vanno maneggiate con discrezione finché non sono concluse.
Trump sceglie invece la linea dell’ambiguità. A bordo dell’Air Force One, incalzato dai giornalisti,
ammette di aver parlato con Maduro ma si rifiuta di entrare nei dettagli:
«Non voglio commentare, la risposta è sì. Non direi che sia andata bene o male, è stata una telefonata»,
riporta la stampa italiana e internazionale.
Cosa si sono detti: l’offerta di esilio e il braccio di ferro sulle condizioni
Dietro la formula anodina della “telefonata”, in realtà, c’è un confronto durissimo.
Secondo un’inchiesta di Reuters e una ricostruzione di Al Jazeera,
confermata e arricchita dai dettagli pubblicati da New York Times,
Miami Herald e ripresa in Italia da la Repubblica,
Trump avrebbe offerto a Maduro una via d’uscita: lascia subito il potere,
accetta l’esilio per te e la tua famiglia, e in cambio potrai contare su un salvacondotto.
Dall’altra parte del filo, Maduro non chiude la porta ma prova a rovesciare il tavolo.
Secondo queste fonti, il leader venezuelano si dice disposto a lasciare il Paese
solo a precise condizioni:
- amnistia completa per lui e i familiari;
- revoca delle sanzioni Usa contro lui e oltre cento alti funzionari chavisti;
- archiviazione del caso davanti alla Corte penale internazionale,
dove è accusato, tra l’altro, di gravi violazioni dei diritti umani.
Trump, stando alle ricostruzioni, respinge la maggior parte delle richieste e rilancia.
L’offerta è secca: dimissioni immediate e partenza in esilio entro pochi giorni,
con una finestra temporale indicata in una settimana.
In Italia, sia Corriere della Sera sia la Repubblica riferiscono
di un vero e proprio ultimatum e di posizioni rimaste «inconciliabili».
Euronews e altri media europei sottolineano che la chiamata sarebbe durata circa 15 minuti,
un faccia a faccia telefonico intenso ma non risolutivo, al termine del quale ognuno resta sulle
proprie posizioni: il presidente americano vuole una resa senza condizioni,
il leader chavista cerca almeno una via d’uscita che lo metta al riparo da processi e confische.
L’ultimatum scade, Maduro non molla e arringa le piazze
La scadenza informale fissata da Washington, secondo alcune ricostruzioni indicata
attorno al 28 novembre, passa senza che a Caracas si muova nulla.
Maduro non si dimette, non annuncia piani di fuga, non apre ad alcuna transizione controllata.
Anzi, sceglie la controffensiva politica e simbolica.
In piazza, davanti ai suoi sostenitori, il presidente venezuelano ribadisce la linea dura:
il Paese non accetterà «la pace delle colonie» e non sarà «mai schiavo»,
rivendicando sovranità e indipendenza di fronte alle minacce militari Usa.
Il tutto in una cornice tipicamente “madurista”: discorsi, musica, balli, video rilanciati sui social,
come raccontano la tv venezuelana e le cronache di canali all-news italiani.
Affaritaliani.it parla esplicitamente della paura che la crisi possa sfociare in una guerra regionale,
soprattutto alla luce dei raid anti-narcos condotti dagli Stati Uniti nel Mar dei Caraibi negli ultimi mesi
e delle continue allusioni di Trump a possibili operazioni militari dirette contro il territorio venezuelano.
La strategia di Trump: chiusura dei cieli, raid in mare, minaccia di terra
Sul fronte americano, la telefonata è solo una tessera di un mosaico molto più ampio.
Negli ultimi mesi Trump ha progressivamente irrigidito la linea verso Maduro:
ha chiuso lo spazio aereo sul Venezuela, mettendo in guardia compagnie e piloti
e avvertendo che sta per iniziare una fase di azioni di terra contro il narcotraffico.
In parallelo, Washington ha intensificato una campagna di attacchi contro barche sospettate
di trasportare droga nei Caraibi e nel Pacifico orientale. Secondo un approfondimento
dell’agenzia AP, dagli inizi di settembre oltre 80 persone sarebbero rimaste uccise
in queste operazioni, tra cui anche civili, con il conseguente deposito di ricorsi presso
organismi internazionali per presunte esecuzioni extragiudiziali.
La Time collega questa pressione militare su Caracas a una narrativa interna
fortemente polarizzata: mentre Trump minaccia di “colpire il cartello di Maduro”,
concede la grazia all’ex presidente honduregno Juan Orlando Hernández, condannato per traffico di droga,
scelta che molte cancellerie latinoamericane leggono come un doppio standard
e un segnale di uso politico del tema narcotraffico.
Sul piano formale, la Casa Bianca ha classificato il cosiddetto Cartel de los Soles,
la presunta rete di militari e funzionari venezuelani vicini a Maduro coinvolti nel traffico di droga,
come organizzazione terroristica straniera.
Una definizione che apre la strada a operazioni militari e di intelligence più aggressive,
come sottolinea La Stampa e altre testate.
Il contraccolpo a Washington: il Congresso tenta di frenare la corsa alla guerra
Mentre Trump accentua la pressione, negli Stati Uniti cresce il dissenso istituzionale.
Un gruppo trasversale di parlamentari, in gran parte democratici ma con almeno un repubblicano,
ha presentato una risoluzione sui War Powers per obbligare la Casa Bianca
a chiedere il via libera del Congresso per eventuali azioni militari non autorizzate contro Caracas.
L’obiettivo è chiarissimo: evitare che l’escalation contro il Venezuela si trasformi in un conflitto aperto
deciso solo dall’esecutivo, sulla scia di quanto accaduto in passato in altri teatri.
Il dibattito sui poteri di guerra si intreccia così con la campagna elettorale americana
e con le pressioni dell’ala isolazionista, poco propensa a un nuovo intervento militare in America Latina.
In questo contesto, la telefonata con Maduro diventa sia un strumento di pressione
(Trump può dire di aver tentato la via dell’esilio “pacifico”) sia un argomento interno,
da spendere verso chi lo accusa di alimentare una crisi pericolosa senza un chiaro mandato del Congresso.
La prospettiva di Maduro: sopravvivere, trattare, guadagnare tempo
Se si guarda la scena da Caracas, la chiamata con Trump appare come l’ennesimo capitolo
della lunga strategia di galleggiamento del regime.
La crisi economica provocata da anni di cattiva gestione e dalle sanzioni internazionali,
con una crescita asfittica e una fuga di milioni di venezuelani,
riduce sempre di più i margini di manovra del governo chavista.
Acconsentire a una trattativa diretta con la Casa Bianca, però, espone Maduro a un rischio enorme:
riconoscere, di fatto, che la sua permanenza al potere dipende dal via libera di Washington.
Da qui l’insistenza su amnistia e garanzie personali,
non solo per sé e per la famiglia ma anche per un’ampia cerchia di funzionari e militari
oggi colpiti da sanzioni e possibili processi.
Il leader venezuelano prova così a perseguire un obiettivo doppio:
evitare un attacco militare e, allo stesso tempo,
non apparire sconfitto agli occhi della propria base.
Le manifestazioni, i discorsi infiammati contro «la colonizzazione» e i richiami alla lotta anti-imperialista
servono esattamente a questo: cementare il consenso e rendere politicamente più costoso per Trump
un eventuale intervento armato.
L’America Latina e il fronte internazionale
Intorno si muove anche la regione. Alcuni governi latinoamericani, in particolare la Colombia di Gustavo Petro,
hanno criticato apertamente l’approccio di Trump, accusandolo di usare il tema del narcotraffico
come pretesto per obiettivi geopolitici e di regime change.
In un’intervista, Petro sottolinea che solo una piccola quota del traffico globale di droga passa dal Venezuela,
ridimensionando così la retorica di Washington.
Sul fronte energetico, Maduro ha scritto ai Paesi membri dell’Opec
chiedendo sostegno contro le «minacce illegali» provenienti dagli Stati Uniti,
nel tentativo di trasformare la crisi bilaterale in una questione di equilibrio nel mercato petrolifero globale.
Le reazioni europee, pur critiche verso il regime di Caracas sul piano dei diritti umani,
restano in generale molto caute rispetto all’ipotesi di un’azione militare Usa.
Tra diplomazie e istituzioni prevale l’idea che un conflitto aperto in Venezuela
aggraverebbe la crisi umanitaria e alimenterebbe nuove ondate migratorie.
Tre scenari dopo la telefonata
Alla luce di questa telefonata – confermata dallo stesso Maduro e mai negata da Trump –
gli scenari possibili sono essenzialmente tre.
1. Trattativa faticosa ma reale.
La chiamata rappresenterebbe il primo mattone di un negoziato più strutturato,
magari mediato da Paesi terzi, destinato a definire tempi e condizioni di un’uscita di scena di Maduro.
Per andare in questa direzione servirebbero però concessioni reciproche:
un allentamento delle sanzioni e garanzie legali da un lato,
passi concreti verso una transizione politica dall’altro.
2. Escalation militare controllata.
Trump potrebbe usare il mancato rispetto dell’ultimatum – e il fallimento della telefonata –
come giustificazione per aumentare la pressione militare:
più raid in mare, operazioni di terra contro obiettivi legati al narcotraffico,
e una cintura navale e aerea ancora più serrata intorno al Venezuela.
Senza necessariamente arrivare a un’invasione classica, basterebbe una campagna di “colpi mirati”
per far precipitare la crisi.
3. Stallo prolungato.
L’ipotesi forse più realistica nel breve periodo: una crisi ad alta tensione ma senza punto di rottura.
Maduro rimane al potere, Trump continua a minacciare e a colpire per via economica e militare selettiva,
il Congresso cerca di limitare i margini di manovra del presidente,
mentre milioni di venezuelani continuano a pagare il prezzo di un braccio di ferro che si gioca
sul loro futuro.
Perché quella telefonata conta davvero
In mezzo a ultimatum, minacce e operazioni militari, la telefonata tra Maduro e Trump dimostra
che, sul filo dell’abisso, la via del dialogo non è del tutto chiusa.
Per il momento è un dialogo minimo, asimmetrico, pieno di calcoli politici e personali.
Ma è anche la conferma che, prima di qualsiasi scenario di guerra,
entrambi i leader vogliono poter dire, di fronte alla propria opinione pubblica e alla storia,
di aver almeno tentato la carta del contatto diretto.
Se resterà soltanto un episodio di questa crisi o diventerà il primo passo verso un’uscita negoziata
dipenderà dalle scelte dei prossimi giorni: a Washington, a Caracas e nelle capitali
che, in silenzio, stanno già lavorando per evitare che il Venezuela diventi il prossimo fronte aperto.