Perché sarebbe sbagliata la reintroduzione dell’art.18

- di: Roberto Pertile
 

La sicurezza del posto di lavoro oggi non è fondata su ceneri di fuochi passati, ma su parametri molto diversi rispetto a quelli di quando fu approvato lo Statuto dei lavoratori. Il patto sociale non può non essere che una gestione socialmente responsabile dell’attività aziendale orientata al cambiamento, all’innovazione e alla crescita. Va prevista la partecipazione dei lavoratori agli organi aziendali e va riconosciuto il loro apporto al processo di accumulazione aziendale con la partecipazione agli utili dell’impresa.

I dati contraddittori sull’occupazione e un quadro prospettico incerto ripropongono il tema delle garanzie in materia di lavoro a tempo indeterminato: torna d’attualità il famoso art. 18 dello Statuto dei lavoratori, da alcuni letto come clausola di non licenziabilità del lavoratore dipendente, da altri come dovuta garanzia di occupazione stabile per il medesimo lavoratore.

È indubbio che le profonde trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro e della produzione hanno dato nuovi contenuti alla questione. La nostalgia per il passato copre un’inerzia strategica. Per la Cgil ripristinare l’art. 18 dovrebbe  assicurare i risultati,  considerati positivi, dello scontro sociale degli anni Sessanta. Si ritiene, cioè, di dare contenuto al futuro con un piano strategico del passato.

Ma il business plan di un’azienda dell’oggi è concentrato su una prospettiva di cambiamento in tutte le sue sfumature, e non sulle ceneri di fuochi passati. Un’azienda sana è convinta di non avere fine, il suo orizzonte è la crescita; alla base della sua azione nel mercato ci sono comportamenti strategici e organizzativi. L’azienda odierna vive un percorso di trasformazione dinamica, che si svolge in un contesto globalizzato. La sua missione è di perseguire un futuro migliore per tutte le componenti del sistema della produzione.

Fondamentale è la progettazione di un futuro migliore di crescita, inclusa la componente occupazionale, che ne consegue quando l’identità dell’impresa si sviluppa nella sua piena potenzialità.

Attualmente, non è tanto il denaro il tema centrale di un’impresa, visto come  tornaconto egoistico. Il focus, come già si è detto, sta nell’assicurare il futuro all’azienda mediante continui cambiamenti di innovazione, giorno dopo giorno. Il patto sociale non può non essere che una gestione socialmente responsabile dell’attività aziendale.

Si tratta, cioè, di scegliere le opzioni del futuro aziendale: prodotti, tecnologia, clienti e così via, con l’obiettivo di creare valore sociale.

Ragionare sull’art. 18 significa, sicuramente, evidenziare  la fragilità del sistema produttivo italiano che ha radici lontane. Questa debolezza potrà essere superata grazie al cambiamento strategico e organizzativo imposto dal mercato internazionale. È un processo di trasformazione che coinvolge, necessariamente, anche il fattore lavoro.

La trasformazione in atto dell’azienda s’inserisce nel cambiamento per un futuro migliore che preveda livelli occupazionali in crescita. Questo processo richiede delle pre-condizioni.

Innanzitutto va prevista la partecipazione dei lavoratori agli organi aziendali e va riconosciuto il loro apporto al processo di accumulazione aziendale con la partecipazione agli utili dell’impresa. Ne consegue una tutela della remunerazione del fattore lavoro, tutela rafforzata da un fisco orientato alla crescita.

A livello erariale andrebbe maggiorata la tassazione delle rendite finanziarie. Naturalmente, il conseguente maggior gettito va destinato a una riduzione della tassazione dei redditi da lavoro dipendente.

I livelli occupazionali a medio-lungo termine si rafforzano anche con politiche attive in materia di formazione professionale. Queste politiche attive vanno finalizzate, tra l’altro, a favorire l’incontro tra domanda e offerta di personale qualificato. In tale contesto, la tutela della donna lavoratrice va a rafforzare  la base occupazionale.

Infine, l’occupazione in fabbrica, e non solo, è tutelata dagli investimenti in tecnologia che producono, tra l’altro, margini di utile che giustificano, come accade in Germania, alti stipendi. Quindi, un mondo del lavoro partecipato, inclusivo, professionalizzato, tecnologico, competitivo garantisce la progettazione di un futuro occupazionale molto più sicuro e duraturo della rigidità contrattuale dell’art. 18.

Quando avviene il fallimento dei processi di crescita diventa inevitabile la chiusura dell’attività aziendale. Il processo è irrimediabilmente compromesso: i meccanismi di accumulazione non producono più valore che possa ripagare i fattori della produzione. Di fronte a ciò, l’art. 18 è impotente sia a livello aziendale, sia, ancor più, in un mondo del lavoro globalizzato, dove si può delocalizzare in tempo reale.

Ben altra tutela darebbe al lavoratore la sua conoscenza dei problemi aziendali, tramite la sua partecipazione alle decisioni strategiche. Conoscere per tempo i fattori della crisi può permettere di attuare politiche preventive della crisi d’impresa.

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