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Italia-Albania, la Corte UE smonta il concetto di Paese sicuro

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Italia-Albania, la Corte UE smonta il concetto di Paese sicuro

La Corte di giustizia europea mette un freno all’accordo tra Italia e Albania. Non basta la politica, non basta una norma votata in Parlamento per definire un Paese d’origine sicuro. Serve il vaglio di un giudice, un controllo giurisdizionale reale, capace di verificare che i diritti fondamentali siano garantiti.

Italia-Albania, la Corte UE smonta il concetto di Paese sicuro

La pronuncia riguarda direttamente il protocollo Roma-Tirana, firmato dal governo italiano per aprire centri di accoglienza e rimpatrio in territorio albanese. L’idea di fondo: considerare l’Albania un Paese sicuro e, in quanto tale, luogo idoneo per gestire i migranti che arrivano in Italia. Ma la Corte stabilisce un punto chiaro: uno Stato membro dell’Unione non può inserire nella lista dei Paesi sicuri un territorio che non assicura protezione a tutta la sua popolazione.

Un principio semplice ma vincolante. Non basta una valutazione politica, occorre che la designazione sia sottoposta a un controllo effettivo in tribunale. Un limite che incide non solo sull’accordo Italia-Albania, ma sull’intero sistema europeo di gestione dei migranti.

Il significato politico e giuridico
La sentenza obbliga a riconsiderare l’uso dello strumento dei “Paesi sicuri”, troppo spesso maneggiato come scorciatoia per accelerare le procedure di rimpatrio e respingimento. La Corte chiarisce che non si può trasformare in automatismo un concetto che incide sulla vita di persone concrete. Ogni valutazione deve poter essere rivista da un giudice.

Nel testo si legge che la condizione resterà valida fino all’entrata in vigore del nuovo regolamento europeo, atteso per il 12 giugno 2026, che introdurrà eccezioni per categorie specifiche. Ma, avverte la Corte, fino ad allora non ci sono deroghe possibili. Il legislatore europeo potrà anticipare l’entrata in vigore, ma non può ignorare il principio di protezione universale.

Un modello contestato
Il protocollo con l’Albania è stato più volte criticato. Per le associazioni che difendono i diritti dei migranti, l’accordo sposta fuori dall’Italia le responsabilità senza risolvere i nodi fondamentali: procedure d’asilo lente, sistemi di accoglienza fragili, diritti compressi. Ora la Corte aggiunge un vincolo giuridico.

Roma e Tirana avevano presentato l’intesa come un modello innovativo, capace di alleggerire la pressione sugli sbarchi in Italia. Ma il rischio, sottolineano i giudici, è di ridurre la tutela a un atto burocratico. Se manca la verifica di un tribunale, il concetto stesso di Paese sicuro perde senso.

Le conseguenze per l’Italia
Il verdetto apre una fase nuova. Il governo italiano dovrà confrontarsi con una cornice europea più rigida di quanto previsto. Ogni procedura che riguardi migranti inviati in Albania potrà essere messa in discussione se non accompagnata da un controllo giudiziario indipendente.

Il rischio è duplice: contenziosi legali e blocchi operativi. Gli avvocati dei migranti avranno un argomento forte da spendere nei tribunali. Le stesse istituzioni europee potrebbero chiedere chiarimenti sull’applicazione dell’accordo. L’Albania, nel frattempo, resta in attesa di capire quale sarà il reale margine di azione.

Una partita che va oltre Tirana
La decisione della Corte non riguarda solo l’Italia. Ogni Stato dell’Unione che intenda usare la categoria di Paese sicuro dovrà fare i conti con questa interpretazione. Non sarà più possibile inserire Paesi discutibili in liste generali per poi usarle come base di rimpatri rapidi.

Il messaggio è netto: la politica non può sostituirsi al diritto. Ogni scelta dovrà essere compatibile con i principi di protezione universale.

Il tempo che manca al 2026
Manca meno di un anno all’entrata in vigore del nuovo regolamento europeo, che consentirà eccezioni e distinzioni tra categorie di persone. Fino ad allora il principio resta rigido: o un Paese è sicuro per tutti, o non è sicuro per nessuno.

L’Italia, che ha puntato molto sull’accordo con l’Albania come segnale politico e operativo, si trova ora a gestire un equilibrio fragile. La sentenza di Lussemburgo mette in discussione non solo i contenuti dell’intesa, ma il metodo con cui è stata costruita.

Una lezione di diritto
La vicenda dimostra quanto il terreno dei diritti e delle migrazioni resti scivoloso. I governi spingono per soluzioni rapide, spesso piegando le regole. I giudici ricordano che i diritti fondamentali non sono un dettaglio negoziabile.

La Corte ribadisce che ogni persona deve avere la possibilità di contestare la sua posizione, davanti a un tribunale e non solo a un ufficio politico. È il principio di effettività che regge lo Stato di diritto europeo. Senza, parlare di Paese sicuro diventa un’etichetta vuota.

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