L'imaging nell'insufficienza cardiaca
- di: Francesco Fedele, Viviana Maestrini, Paolo Severino
L’insufficienza cardiaca è una delle patologie più diffuse e di più difficile risoluzione, la cui incidenza è destinata ad aumentare notevolmente nei prossimi anni, al punto da poter essere considerata l’epidemia del nuovo millennio. E’ una sindrome clinica complessa, in grado di ridurre la capacità funzionale e la qualità della vita dei soggetti che ne sono affetti, con tassi di morbilità e mortalità che risultano ancora notevolmente elevati. È una patologia progressiva causata da diverse malattie, come la malattia coronarica, l’ipertensione arteriosa, le miocardiopatie, le valvulopatie o le cardiopatie congenite. Per un migliore inquadramento diagnostico del paziente, i dati anamnestici, clinici ed obiettivi devono essere affiancati dall’esecuzione di metodiche di imaging cardiovascolare che forniscono informazioni sull’eziologia e la prognosi del paziente. Tra queste la metodica di prima linea, e la più utilizzata, è l’ecocardiografia che utilizza ultrasuoni, ed è stata introdotta nel nostro Paese alla fine degli anni sessanta. Attraverso tecniche mono- e bidimensionali e al Doppler, l’ecocardiografia fornisce informazioni sulla morfologia e la contrattilità del cuore e sulla presenza di valulopatie, utili per identificare la diagnosi eziologica, la prognosi del paziente e per monitorare gli effetti della terapia. Permette inoltre il calcolo della frazione di eiezione (FE) del ventricolo sinistro che viene considerato, dalle linee guida internazionali, un parametro centrale per l’inquadramento del paziente affetto da insufficienza cardiaca. Tuttavia, pur essendo un parametro semplice da calcolare e alla base della pratica cardiologica quotidiana, è gravato da diversi e ben noti limiti tecnici e da un’elevata variabilità intra- e inter-operatore, stimata intorno al 15%.
Dal punto vista dell’inquadramento fisiopatologico, clinico e prognostico di questi pazienti è molto importante avere informazioni sull’entità della disfunzione ventricolare sinistra, della quale la frazione di eiezione rappresenta solo uno degli aspetti per quantificarla. Negli ultimi anni, l’avanzamento tecnologico ha permesso di introdurre nuove e più avanzate tecniche ecocardiografiche. La metodica tridimensionale (3D) integra e completa l’esame bidimensionale, permettendo un calcolo più accurato e riproducibile delle dimensioni ventricolari e della frazione di eiezione. Inoltre sono state introdotte il Doppler tissutale (TDI) e lo speckle tracking che rappresentano metodiche di ecocardiografia avanzata molto utili per lo studio della funzione ventricolare e che forniscono informazioni aggiuntive rispetto alla sola frazione di eieizione. Il TDI fu inizialmente utilizzato negli anni ’80 per la valutazione della funzione miocardica longitudinale e, attualmente, è in grado fornire una stima della contrazione e del rilasciamento miocardico, attraverso lo studio del movimento dell’anello valvolare mitralico e tricuspidale, rispetto all’apice del cuore. Tali dati hanno un valore prognostico molto importante nell’insufficienza cardiaca. Le tecniche ecocardiografiche di strain e strain rate, invece, valutano quantitativamente funzione e contrattilità del miocardio, superando alcuni dei limiti della frazione di eiezione e del TDI essendo meno operatore-dipendente e più riproducibile. Lo strain fornisce dati sulla deformazione miocardica, in particolare l’ispessimento, l’accorciamento e la rotazione, per una valutazione dell’eterogeneità transmurale della funzione contrattile del miocardio, estremamente utile soprattutto negli stadi subclinici di insufficienza cardiaca. Queste valutazioni più fini ed accurate necessitano però di software più complessi e costosi, disponibili purtroppo solo in pochi centri di eccellenza, e pertanto non rappresentano, allo stato attuale, una tecnologia diffusa su larga scala.
Accanto alla metodica ecocardiografica, basata sugli ultrasuoni, la risonanza magnetica cardiaca (RMC) sta assumendo un ruolo sempre più crescente nell’ambito cardiologico. La RMC è una tecnica tomografica e non utilizza radiazioni ionizzanti. La metodica rappresenta ad oggi la tecnica gold standard per quantificare i volumi ventricolari, la massa miocardica e la FE bi-ventricolare. La RMC supera i limiti di calcolo dell’ecocardiografia per la quantificazione della FE grazie alla qualità delle immagini e al fatto che è una tecnica tomografica e quindi non vi sono assunzioni geometriche. Inoltre fornisce dati sulla caratterizzazione tissutale, cioè è in grado di identificare zone anomale all’interno del muscolo cardiaco quali la presenza di edema o di aree di cicatrice. Queste informazioni sono preziose nell’ambito dell’insufficienza cardiaca poiché forniscono informazioni per discriminare tra le diverse possibili cause sottostanti. La presenza e l’estensione del danno miocardico, attraverso la quantificazione della fibrosi, ha un ruolo incrementale per la stratificazione prognostica rispetto alla sola frazione di eiezione, nonostante attualmente quest’ultima rappresenti il punto cardine per identificare i pazienti a rischio per morte cardiaca improvvisa. La valutazione, inoltre, della fibrosi attraverso il late gadolinium enhancement (LGE), identifica aree potenzialmente aritmogeniche, da dove cioè possono insorgere aritmie anche fatali. Anche il LGE presenta dei limiti poiché è robusto nell’identificare arre di fibrosi focale nel cuore, come cicatrici, ma non è in grado di identificare la fibrosi diffusa a tutto il muscolo cardiaco. Anche la RMC sta subendo un’evoluzione tecnologica continua e oggigiorno sono disponibili nuove sequenze di Mapping per la caratterizzazione tissutale in grado di evidenziare e quantificare la fibrosi diffusa.
Alla luce di quanto detto appare chiaro che ogni metodica ha i suoi punti di forza e i suoi limiti, ed è fondamentale un approccio ed un utilizzo integrato delle diverse metodiche, dovendo tener conto non solo delle peculiarità e dei limiti delle diverse tecniche, ma anche delle risorse disponibili sul territorio. L’auspicio è quello di una maggiore capillarità dell’accesso alle metodiche di imaging avanzato a livello nazionale, senza le differenze regionali che, purtroppo, caratterizzano ancora il nostro Paese.