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Hamas prende tempo sul piano Trump: tregua sospesa tra calcoli politici e logoramento di Gaza

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Hamas prende tempo sul piano Trump: tregua sospesa tra calcoli politici e logoramento di Gaza

Il movimento islamista Hamas non respinge il piano di pace presentato dal presidente americano Donald Trump, ma chiede tempo.
“Le consultazioni interne sono in corso e richiedono tempo”, ha fatto sapere un funzionario del gruppo, lasciando intendere che la leadership non vuole apparire divisa né arrendevole di fronte a una proposta calata dall’alto e appoggiata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Hamas prende tempo sul piano Trump: tregua sospesa tra calcoli politici e logoramento di Gaza

La presa di tempo riflette un calcolo politico: accettare subito significherebbe apparire debole davanti alla propria base e rischiare fratture con le altre fazioni palestinesi; respingere il piano a priori equivarrebbe a isolarsi di fronte alla comunità internazionale e a perdere l’occasione di ottenere una tregua, almeno temporanea.

Il nodo di fondo: tregua o soluzione

Il piano Trump – che si presenta come “road map per la pace a Gaza” – è in realtà una proposta di cessate il fuoco condizionato e di graduale smantellamento delle infrastrutture armate di Hamas, accompagnata da garanzie di sicurezza per Israele e da un pacchetto di aiuti per la ricostruzione.

È una tregua negoziata, non una soluzione strutturale del conflitto.
Lo sanno i mediatori regionali, che temono che il logoramento militare e umanitario di Gaza continui anche in presenza di un accordo temporaneo, e lo riconosce la stessa leadership religiosa locale.

La voce della Chiesa di Gaza

Dalla parrocchia della Sacra Famiglia, unico presidio cattolico nella Striscia, padre Gabriel Romanelli esprime con sobrietà un desiderio condiviso dalla popolazione civile: “La gente comune vuole che questa guerra finisca. Speriamo che si raggiunga un accordo”.
Ma aggiunge, richiamando le parole del Patriarca latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, che la fine dei combattimenti non significherà la fine del conflitto né l’estinzione dell’odio che lo alimenta.

È un richiamo che smonta le illusioni di una pace immediata: gli scontri possono cessare, ma il conflitto politico, ideologico e identitario resta intatto.

Geometria variabile delle alleanze

Il tempo che Hamas chiede serve anche a testare le reazioni dei principali attori regionali. L’Egitto e il Qatar, tradizionali mediatori, spingono per un accordo che alleggerisca la pressione umanitaria e stabilizzi il confine di Rafah. L’Arabia Saudita osserva con interesse, ma senza impegnarsi troppo: la priorità di Riad è non compromettere i rapporti in via di distensione con Israele.
L’Iran, che sostiene militarmente Hamas, vede nel piano americano un possibile indebolimento della propria influenza a Gaza e cerca di rallentarne l’attuazione.

Netanyahu e Trump: convergenza tattica

Per il premier israeliano Netanyahu, sostenere il piano di Washington significa mostrarsi cooperativo con l’alleato americano e allo stesso tempo mantenere l’iniziativa sul terreno militare.
Per Trump, la proposta è un banco di prova della sua capacità di ridisegnare la diplomazia mediorientale e ottenere un risultato tangibile nel suo nuovo mandato.

Ma entrambi sanno che la pace vera non si costruisce con un documento o con una firma, e che la sopravvivenza politica di Hamas e la frattura interna alla leadership palestinese restano ostacoli strutturali.

L’impasse strategica
In questo quadro, il rinvio di Hamas è un segnale di impasse strategica.
Il movimento non può permettersi di rifiutare apertamente il piano senza alienarsi i mediatori e la popolazione stremata; ma non vuole accettare condizioni che potrebbero preludere a un disarmo forzato e alla perdita del controllo politico su Gaza.

Il rischio è che il negoziato si trasformi in un gioco di rinvii, mentre la situazione umanitaria peggiora e il conflitto rimane sospeso, pronto a riaccendersi a ogni provocazione.

Il conflitto oltre la tregua
Le parole di padre Romanelli e del cardinale Pizzaballa ricordano che la guerra è solo il sintomo di un conflitto più profondo, che attraversa decenni di storia, identità e rivendicazioni territoriali.
Un accordo può fermare le armi, ma non cancella le radici di ostilità reciproca, né i calcoli di potenza dei protagonisti regionali.

Il piano Trump potrebbe aprire uno spiraglio diplomatico, ma sarà fragile finché non verrà accompagnato da un vero processo politico che ridefinisca i rapporti di forza tra Israele, Hamas e l’Autorità nazionale palestinese, e finché le leadership non saranno disposte a pagare il prezzo interno di un compromesso autentico.

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