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Giustizia civile in affanno: Pnrr a rischio tra ritardi e carenze

- di: Vittorio Massi
 
Giustizia civile in affanno: Pnrr a rischio tra ritardi e carenze
Giustizia civile in affanno: Pnrr a rischio tra ritardi e carenze
Con oltre 1.800 magistrati mancanti, tempo medio di cinque anni per tre gradi: l’Italia rischia di non rispettare gli impegni presi con l’Europa.

L’Italia della giustizia civile è alla resa dei conti: non basta più segnalare che i processi durano troppo, è urgente cambiare rotta. L’Associazione nazionale magistrati suona l’allarme: gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza rischiano il flop. Tra numeri impressionanti, promesse non ancora mantenute e criticità strutturali ignorate da troppo tempo, lo Stato si trova di fronte a una sfida che non può più essere rimandata. Ecco le contraddizioni più evidenti, le ragioni dietro il problema e le implicazioni politiche.

Le cifre che pesano

Mancano 1.800 magistrati nella pianta organica, oltre il 17% di vuoti. Se si considerano anche il personale amministrativo e le altre figure essenziali, la carenza strutturale arriva fino a circa il 40%.

Il disposition time (tempo medio di definizione dei processi nei tre gradi) ha mostrato progressi insufficienti: rispetto al 2019, la riduzione si è attestata attorno al 20%, ben lontana dal −40% fissato entro il 30 giugno 2026.

Nel frattempo, le nuove iscrizioni crescono: dal 2019 al 2024 il flusso dei procedimenti civili è aumentato di circa +12%, con picchi in materie come cittadinanza e protezione internazionale.

Cosa prometteva il Pnrr, cosa sta succedendo

Il Pnrr impegnava l’Italia a ridurre del 40% la durata media dei processi civili (tre gradi) rispetto al 2019 e a tagliare drasticamente l’arretrato più recente. Oggi, con la scadenza a meno di un anno, la traiettoria non basta: la riduzione accumulata non è ancora in linea e la distribuzione dei miglioramenti è disomogenea tra Tribunali e Corti d’appello.

Le cause profonde

Organici insufficienti e turn over faticoso: senza magistrati e personale amministrativo adeguato, ogni riforma resta un cantiere aperto.

Afflusso di nuove cause superiore alla capacità di smaltimento: gli uffici lavorano in costante affanno.

Ricorso eccessivo a strumenti emergenziali: deroghe e poteri straordinari rischiano di diventare la regola, comprimendo garanzie e stabilità del sistema.

Digitalizzazione a macchia di leopardo: investimenti e software non sempre si traducono in efficienza reale senza formazione, infrastrutture e standard condivisi.

Le ricadute per cittadini e stato

Per i cittadini, tempi lunghissimi per chiudere cause su famiglia, lavoro e diritti, con costi economici e psicologici elevati. Per lo Stato, il rischio di non rispettare gli impegni europei, con possibili ripercussioni su fondi, credibilità e capacità di attrarre investimenti.

Affidarsi alla logica della “fabbrica di sentenze” può salvare i numeri, ma non garantisce qualità, diritti e fiducia nella giustizia.

Dove intervenire subito

Coperture organiche e stabilizzazione del personale giudiziario, non solo delle toghe. Razionalizzazione della geografia giudiziaria e revisione delle piante organiche, per allocare risorse dove i ritardi sono più gravi. Strumenti deflattivi effettivi (mediazione, procedure alternative, semplificazioni) per ridurre gli ingressi in tribunale. Digitalizzazione utile con formazione e interoperabilità reale. Il tutto nel rispetto del giudice naturale e delle garanzie costituzionali.

Il bilancio finale

A settembre 2025 la salita è ancora ripida. Alcuni progressi ci sono, ma non bastano. Se non cambiano ritmo e priorità — dagli organici alla qualità della digitalizzazione — il Paese rischia di mancare gli obiettivi e, peggio, di lasciare i cittadini in un sistema che premia la lentezza. Non è solo tecnica: è una questione di diritti e credibilità democratica. 

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