FOTO: Silviasca - CC BY-SA 4.0
Ogni anno, quando torna il giorno dell’agguato, la foto di Giancarlo Siani in Vespa riemerge come simbolo. Un ragazzo di 26 anni, cronista precario del Mattino, ucciso per aver raccontato troppo bene le dinamiche di potere della camorra. Non era un eroe cercato, ma un giovane giornalista che credeva nella normalità di un mestiere: raccogliere notizie, verificare, scrivere. Eppure quella normalità divenne un atto di sfida, e la sua vita fu stroncata.
Giancarlo Siani, la lezione che non possiamo archiviare
Ciò che colpisce di Siani è la sua idea di giornalismo. Non cercava scoop sensazionalistici, non inseguiva l’immagine di sé come “giornalista di frontiera”. Faceva cronaca. Annotava i rapporti tra clan, gli interessi sugli appalti, le connivenze. Una cronaca tanto ordinaria quanto pericolosa, perché in un territorio come Napoli raccontare la verità è di per sé un gesto eversivo. La sua è stata la dimostrazione più chiara di come il mestiere, se svolto con serietà, possa trasformarsi in una sfida politica e morale.
La memoria pubblica e il rischio della retorica
Ogni anno il suo nome viene ricordato in cerimonie ufficiali, nelle scuole, nelle redazioni. Ed è giusto. Ma la memoria rischia di diventare rituale, e dunque innocua. Perché Giancarlo non era un martire da santificare, ma un giovane che ha pagato il prezzo per la libertà di informazione. Ricordarlo serve non tanto per ripetere la storia, ma per evitare che la sua vicenda si trasformi in un santino senza conseguenze.
Un Paese che dimentica in fretta
La storia italiana è segnata da cronisti uccisi dalla mafia, dal terrorismo, dal potere criminale. Eppure spesso la memoria di queste figure si appanna, come se il tempo bastasse a coprire le responsabilità collettive. Il caso Siani mostra che la libertà di stampa non è un bene acquisito: va difesa ogni giorno, soprattutto quando il giornalismo si piega a logiche di intrattenimento o di convenienza.
La lezione per i giovani giornalisti
C’è un’eredità viva che riguarda chi inizia oggi a lavorare nei giornali. Giancarlo Siani, con la sua precarietà contrattuale e i suoi mezzi limitati, assomiglia molto a tanti giovani cronisti dei nostri tempi. Ma dimostra che anche senza potere e senza protezione si può incidere sulla realtà. La sua storia diventa così un esempio di rigore: non serve essere famosi, basta essere fedeli alla notizia.
Politica e società di fronte a quella morte
La sua uccisione mise lo Stato di fronte a una verità scomoda: la camorra non colpiva solo i magistrati e le forze dell’ordine, ma anche chi raccontava. La risposta politica non fu immediata, e ancora oggi resta aperto il tema della protezione dei giornalisti che indagano su criminalità e corruzione. Ricordare Siani significa anche interrogarsi su quanto le istituzioni siano pronte a garantire libertà di stampa reale e non solo formale.
La normalità che diventa coraggio
Siani non cercava la gloria. Voleva solo fare bene il suo mestiere. È in questo paradosso che risiede la sua forza: la normalità che diventa coraggio, la cronaca che diventa resistenza civile. Ecco perché ricordarlo non è una scelta opzionale ma un dovere: per i giornalisti, per la politica, per i cittadini.
Giancarlo Siani non ci ha lasciato soltanto un esempio, ma una domanda: quanta verità siamo disposti a sopportare, e chi avrà il coraggio di raccontarla?