L’Italia si prepara a tornare in Medio Oriente con i suoi soldati. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha annunciato in Parlamento la disponibilità di Roma a partecipare alla Forza internazionale di stabilizzazione nella Striscia di Gaza, prevista dal piano di cessate il fuoco mediato da Stati Uniti e Unione Europea. Una decisione che rievoca antiche missioni — dal Libano ai Balcani — e che ripropone l’Italia nel ruolo, mai semplice, di garante di un equilibrio fragile tra la diplomazia e la polvere da sparo.
Gaza, l’Italia in prima linea nella missione internazionale. Ma la pace è ancora un miraggio
Tajani ha parlato di “unità di intenti tra tutte le forze politiche”, e, per una volta, il clima sembra meno divisivo del solito. Pd e Movimento 5 Stelle aprono al confronto: “Siamo pronti a discutere se ci sarà un mandato dell’Onu”, dicono i dem. “L’Italia può svolgere un ruolo di pace con i nostri militari”, aggiunge Giuseppe Conte, come se il pacifismo potesse indossare un elmetto blu.
Ma l’invio di truppe in una Gaza devastata da mesi di bombardamenti, sventrata nelle infrastrutture e nelle anime, non è una missione come le altre. Qui la linea tra la pace e la guerra è più sottile della sabbia che copre le macerie.
A Palazzo Chigi, la guerra e la fame
A Roma, il vertice convocato da Palazzo Chigi sulle emergenze e la ricostruzione della Striscia ha il sapore di un laboratorio diplomatico ma anche di una corsa contro il tempo. Si discute di aiuti umanitari e sanitari, di ospedali da campo e corridoi umanitari, ma anche di 100 tonnellate di viveri pronte a partire verso Rafah.
In realtà, la fame a Gaza non si misura solo in tonnellate di cibo: è una carestia politica, il risultato di anni di blocchi, embargo e sospetti. Anche la “ricostruzione” rischia di diventare un eufemismo se prima non si ricostruisce la fiducia.
Hamas, Israele e l’ombra americana
Dalla Striscia arrivano notizie frammentarie. Hamas sostiene di aver “restituito tutti i corpi raggiungibili” degli ostaggi e di avere bisogno di “attrezzature extra” per completare la consegna delle salme. È una frase che pesa come un macigno: in ogni parola si sente la disperazione di un territorio dove la morte è diventata routine amministrativa.
Ma il vero messaggio, come sempre, arriva da Washington. Donald Trump, tornato a dettare tempi e toni della diplomazia americana, ha lanciato un monito che sa più di ultimatum: “Se Hamas non rispetterà l’accordo, Israele potrà tornare ad attaccare. Non appena lo dirò io.”
Parole che fanno capire chi, ancora una volta, tiene in mano il filo della pace e quello della guerra.
Un fragile equilibrio e un ruolo da definire
Il valico di Rafah riaprirà domani sotto la supervisione della missione europea. Un segnale, forse, che la comunità internazionale prova a rimettere piede in un territorio che da troppo tempo è sinonimo di impasse.
L’Italia, dal canto suo, vuole esserci. È nel suo dna di potenza di mezzo: non comanda, ma media; non impone, ma accompagna. Una tradizione che ha prodotto missioni di successo, come in Libano, ma anche ferite mai rimarginate, come in Iraq o in Afghanistan.
Il problema, oggi, è che a Gaza non c’è ancora una pace da garantire. Ci sono solo macerie, sospetti, vendette e un accordo che vive minuto per minuto, appeso alle parole di Washington e alle ritorsioni di Tel Aviv.
In questo scenario, l’Italia potrà portare competenza, esperienza e buona volontà. Ma finché il Medio Oriente resterà prigioniero dei suoi fantasmi, anche la più nobile delle missioni rischia di diventare un presidio tra le rovine, più simbolico che efficace.
La pace, qui, non si conquista con i blindati. Si costruisce — se ancora si può — con la pazienza della diplomazia e la memoria di chi sa che ogni guerra, in fondo, finisce sempre dove comincia: tra le case distrutte della gente comune.