Zamir lancia l’offensiva: meno riserve, più corridoi “umanitari” e una città sotto assedio.
Il piano israeliano sotto la lente
In un dossier segreto, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito israeliano, Eyal Zamir, ha dato il via libera a un piano che prevede l’evacuazione della popolazione di Gaza City in un lasso di tempo inferiore a due mesi. Questo piano strutturato è il preludio a un blocco e occupazione totale della città, da attuarsi subito dopo lo spostamento dei civili.
Zamir ha sottolineato la volontà di minimizzare il ricorso alle forze di riserva, segnale di un’operazione calibrata, ma pur sempre letale nel suo intento.
Il quadro umanitario peggiora
La prospettiva della trasferenza forzata di circa un milione di civili ha scatenato terrore e tensione all’interno di Gaza. Le vie di fuga sono collassate, i convogli già ammassati, mentre la fame avanza drammaticamente, con un bilancio che ha ormai superato quota 61.000–62.000 morti palestinesi, molti dei quali bambini. Dall’altra parte, Israele sostiene che consegnerà tende e assistenza nell’area sud, ma la situazione rimane disperata e spesso letale.
Proteste in patria e diplomazia in affanno
In risposta alle decisioni del governo Netanyahu, Israele è scosso da manifestazioni di massa, fatte di scioperi, cortei e blocchi stradali. I manifestanti — tra cui ex ostaggi e sopravvissuti dell’Olocausto — chiedono una tregua e il ritorno dei loro cari ancora in mano ad Hamas.
Intanto la diplomazia regionale tenta una mediazione frenetica: il Qatar e l’Egitto lavorano a un cessate il fuoco di 60 giorni, mentre l’Inghilterra sta accelerando le procedure per ospitare bambini gazawi feriti.
Fragilità e dissenso interno
Mentre il governo avanza col piano, emergono divisioni all’interno dello Stato maggiore. Zamir stesso si era opposto inizialmente a un’occupazione estesa dell’intera Striscia di Gaza, tentando di moderare l’approccio anche durante il voto del Consiglio di sicurezza dello scorso 8 agosto.
Prospettive umanitarie cupe
Il piano di evacuazione in meno di due mesi, seguito da occupazione sistematica, segna l’avvio di una nuova, drammatica fase del conflitto. Le prospettive umanitarie sono cupe: mentre da una parte si afferma di garantire sicurezza e risparmio di vite attraverso lo spostamento dei civili, dall’altra si rischia una catastrofe umanitaria e la deportazione forzata, con ripercussioni legali internazionali gravissime.