Lavoro debole, inflazione ostinata e ombra di Trump: perché il “taglio da falchi” fa tremare i mercati.
Un mercato del lavoro che perde colpi, un’inflazione che resta sopra il 2% e una Federal Reserve
pronta a tagliare ancora il costo del denaro: è questo il mix esplosivo che accompagna la riunione di dicembre
della banca centrale americana, mentre si consuma il passaggio di testimone dopo l’era Powell e cresce
l’attesa per il nome scelto da Donald Trump per la presidenza della Fed.
Mercoledì è ormai data per quasi scontata una riduzione di 25 punti base, che porterebbe il
tasso sui Fed funds nella fascia stimata del 3,75-4,0%, il livello più basso degli ultimi tre anni. Un
allentamento che, però, la stessa banca centrale si prepara a vendere come un “taglio da falchi”:
niente via libera a una lunga serie di sforbiciate, ma un aggiustamento tattico in un contesto in cui
l’inflazione core resta ancora appiccicosa e le incognite politiche non mancano.
Il mercato del lavoro: l’anello debole che spinge verso il taglio
Negli ultimi mesi i segnali di raffreddamento dell’occupazione si sono moltiplicati. I payroll
hanno sorpreso più volte al ribasso, la creazione di nuovi posti è rallentata e, dietro la superficie di un
tasso di disoccupazione ancora relativamente contenuto, si moltiplicano indicatori di stress: aumento dei
licenziamenti, calo delle ore lavorate, crescita delle richieste di sussidi.
Secondo diverse analisi, nel solo 2025 le aziende americane avrebbero annunciato oltre un milione di
tagli di organico, con settori come tecnologia, retail e manifatturiero particolarmente esposti.
Per molti economisti è proprio questa debolezza del lavoro – non l’inflazione – ad aver convinto la Fed
che sia necessario un nuovo intervento sui tassi per evitare che un rallentamento “ordinato” si trasformi
in una frenata brusca dell’economia.
Il paradosso, osservano diversi gestori, è che la banca centrale taglia in parte perché l’economia sta
rallentando, ma deve comunicare come se fosse ancora iper vigile sull’inflazione, per non alimentare
l’idea di una Fed già in modalità “salvataggio”. Da qui il delicato esercizio di linguaggio: un taglio
che aiuta la congiuntura, ma presentato come prudente e reversibile.
Una Fed spaccata in due anime
Dietro il comunicato che verrà diffuso dopo la riunione si nasconde una Fed profondamente divisa.
Da una parte ci sono i falchi, preoccupati che alleggerire troppo in fretta la politica monetaria possa
riaccendere la spirale dei prezzi e alimentare nuove bolle su azioni e immobili. Dall’altra, le colombe,
convinte che il rallentamento del lavoro e il rischio di un “credit crunch strisciante” giustifichino
ulteriori tagli per sostenere crescita e investimenti.
Le nuove proiezioni economiche e il dot-plot – il grafico con le attese sui tassi di ciascun membro
del FOMC – diranno molto sul compromesso raggiunto: una Fed intenzionata a fermarsi dopo dicembre, o
un’istituzione che lascia aperta la porta ad altre mosse nel 2026 se il quadro macro dovesse peggiorare
ulteriormente.
A rendere il tutto più delicato c’è il fatto che queste previsioni saranno il vero “testamento” di Jerome
Powell: la mappa dei tassi che il suo successore si ritroverà in eredità, e che potrà seguire, forzare o
ribaltare, sapendo che ogni deviazione verrà letta come un segnale politico.
Successione di Powell: l’ombra di Trump e il caso Hassett
In questo scenario ad alta tensione, la Casa Bianca ha un ruolo centrale. Trump ha attaccato più volte
Powell, definendolo una delle sue decisioni peggiori e accusandolo di aver stretto i cordoni dei tassi
troppo tardi e troppo poco. Oggi il presidente vuole un successore che condivida la sua visione:
tassi più bassi, più in fretta, per spingere crescita, consumi e Borsa in vista delle elezioni
di metà mandato.
Tra i nomi che circolano con maggiore insistenza c’è quello di Kevin Hassett, economista di lunga
esperienza e consigliere economico di fiducia di Trump. Il presidente lo ha citato più volte, anche in
pubblico, scherzando ma non troppo sul fatto che potrebbe essere il prossimo numero uno della Fed. I
mercati, però, ridono poco: la possibilità che alla guida della banca centrale arrivi un presidente molto
più allineato politicamente alla Casa Bianca agita in particolare il mercato obbligazionario.
Nei giorni scorsi il rendimento dei Treasury a lungo termine ha mostrato una forte sensibilità alle voci
sulla successione: ogni volta che le quote legate a un profilo percepito come più “morbido” sui tassi
salgono, gli investitori chiedono un premio più elevato per detenere titoli in dollari, temendo una
politica monetaria troppo espansiva rispetto al sentiero dell’inflazione.
Un’altra incognita riguarda l’indipendenza stessa della Fed. Il successore di Powell dovrà non solo
ricompattare un board spaccato, ma anche convincere i mercati di non essere un’emanazione della Casa
Bianca. Missione complicata, considerando che Trump pretende lealtà assoluta dai suoi uomini e che
ha già piazzato una sua figura di fiducia alla guida dell’ufficio statistico, alimentando timori su
possibili pressioni anche sulla qualità e la trasparenza dei dati macro.
Dazi e Corte Suprema: la mina sotto l’inflazione
Sullo sfondo della riunione della Fed c’è un altro dossier che potrebbe cambiare le carte in tavola:
la Corte Suprema è chiamata a pronunciarsi sulla legalità dei dazi “reciproci” decisi da Trump.
Se le tariffe venissero bocciate, l’effetto a medio termine potrebbe essere disinflazionistico, grazie a
una parziale riduzione dei prezzi su beni importati. Ma se venissero confermate, o addirittura estese,
la pressione sui prezzi al consumo resterebbe elevata.
Alcune stime indicano che le ondate di dazi degli ultimi anni avrebbero già aggiunto fino a 0,5 punti
percentuali all’inflazione core, con un impatto differenziato tra settori: le grandi aziende più
capitalizzate hanno sfruttato economie di scala e vantaggi fiscali per ammortizzare i costi, mentre
imprese più piccole e meno patrimonializzate li hanno scaricati in misura maggiore sui prezzi finali.
Il verdetto della Corte potrebbe quindi influenzare in modo diretto la traiettoria futura dei tassi:
una riduzione dei dazi darebbe alla Fed un po’ più di spazio per sostenere la crescita, mentre la
conferma piena della politica tariffaria renderebbe più difficile giustificare tagli aggressivi
con l’inflazione ancora appesantita da shock sull’offerta.
Come reagiscono i mercati: azioni, bond, oro
In attesa della Fed, le Borse europee si muovono in ordine sparso: Milano chiude praticamente
invariata, Parigi cede una frazione, Francoforte riesce a strappare un progresso moderato. Una fotografia
di prudenza: il mercato ha già prezzato il taglio, ma teme scossoni dalla conferenza stampa di Powell e
dalle nuove proiezioni sui tassi.
Anche Wall Street procede a passo lento, con indici che oscillano su variazioni contenute e una rotazione
settoriale evidente: i titoli più sensibili ai tassi – banche e assicurazioni – osservano con cautela,
mentre alcuni comparti “growth” approfittano dell’idea di condizioni finanziarie leggermente più
favorevoli nel 2026. Il vero termometro dell’ansia, però, resta il mercato obbligazionario.
I rendimenti dei Treasury a 10 anni si muovono su una linea sottile: un messaggio troppo morbido da parte
della Fed potrebbe alimentare il timore che la banca centrale stia “cedendo” alle pressioni politiche e
al deterioramento del lavoro, spingendo in alto i rendimenti per compensare il rischio di inflazione
futura. Viceversa, un linguaggio troppo rigido rischierebbe di penalizzare Borsa e credito proprio
quando l’economia mostra crescenti segnali di fatica.
In parallelo, l’oro – tradizionale bene rifugio – ha già beneficiato dei dati deboli sul lavoro e delle
aspettative di taglio, risalendo verso i massimi di alcune settimane fa. Per molti investitori resta una
copertura contro due scenari opposti ma ugualmente pericolosi: recessione più profonda del previsto
o nuovo scivolone della Fed, percepita come troppo accondiscendente verso la Casa Bianca.
Cosa cambia per famiglie, imprese e resto del mondo
Per le famiglie americane, un nuovo taglio dei tassi significa in prospettiva mutui leggermente meno cari,
credito al consumo un po’ più accessibile e un sollievo limitato ma reale sul fronte delle rate. Il
beneficio non sarà immediato – molti finanziamenti sono già stati rinegoziati negli ultimi mesi – ma
l’orientamento più accomodante della Fed può evitare che il costo del debito resti a lungo su livelli
troppo restrittivi.
Per le imprese, soprattutto le più indebitate, un costo del denaro più basso riduce la probabilità di
tensioni di liquidità e default nella fase in cui il ciclo mostra segni di logoramento. Resta però il
rischio che una Fed percepita come troppo vicina alla Casa Bianca possa indebolire la fiducia di lungo
termine nella stabilità del dollaro, con possibili ripercussioni sul flusso di capitali verso gli
Stati Uniti.
Sul piano internazionale, ogni mossa della Fed riscrive le regole del gioco per banche centrali e mercati
emergenti. Un ciclo di tagli prolungato potrebbe alleggerire la pressione sui Paesi con debito in dollari,
ma allo stesso tempo indebolire il biglietto verde e alimentare nuove ondate di flussi verso asset più
rischiosi, con il pericolo di future correzioni violente.
Il vero test: indipendenza e credibilità
Al di là del singolo quarto di punto, la posta in gioco è la credibilità della Federal Reserve.
Il successore di Powell dovrà muoversi su un crinale sottilissimo: dimostrare di saper leggere i dati
– lavoro in rallentamento, inflazione in discesa ma ancora sopra il target, incertezza sui dazi –
senza diventare lo strumento di una strategia politica in vista delle urne.
Per i mercati, la domanda chiave non è solo “quanto” e “quando” la Fed taglierà ancora, ma
“perché”: se per sostenere un’economia in rallentamento nel rispetto del mandato su occupazione
e prezzi, o per compiacere la Casa Bianca e tenere viva l’illusione di un ciclo eterno di Borsa e
crescita. La risposta comincerà ad arrivare mercoledì, con il comunicato, il dot-plot e le parole
di Powell. Ma sarà il comportamento del suo successore, nei prossimi mesi, a decidere se questo
sarà ricordato come un semplice “taglio da falchi” o come l’inizio di un cambio di paradigma
nella politica monetaria americana.