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La vertenza ex Ilva esplode tra occupazioni e nervi tesi

- di: Bruno Legni
 
La vertenza ex Ilva esplode tra occupazioni e nervi tesi
Ex Ilva, occupazioni e nervi tesi: perché il piano è a rischio
Acciaio, posti di lavoro e clima: perché il progetto del governo vacilla.
 
(Foto: una manifestazione sindacale operaia).

La notte davanti ai cancelli di Cornigliano e la mobilitazione all’alba a Taranto sono il segnale che qualcosa si è rotto per sempre nel dossier ex Ilva. Operai in presidio permanente, stabilimenti occupati, scioperi a Genova e Novi Ligure, assemblea unitaria convocata per domani alle 7 alla portineria imprese di Taranto: la catena degli stabilimenti di Acciaierie d’Italia è entrata in una fase di conflitto aperto, con i sindacati che non parlano più di “correzioni” ma di piano fallito e chiedono un intervento diretto della presidente del Consiglio.

Secondo le sigle metalmeccaniche, il progetto illustrato dall’esecutivo nei giorni scorsi non solo non garantisce il rilancio, ma spalanca la porta alla chiusura progressiva dei siti produttivi dal 1° marzo, quando scadranno le attuali garanzie collegate all’amministrazione straordinaria.

Il messaggio da Genova: “Così si spegne la siderurgia italiana”

A Genova, i lavoratori dell’ex Ilva hanno trasformato via Cornigliano in un presidio fisso: assemblea permanente dentro lo stabilimento e strade bloccate con i mezzi di lavoro. Lo stesso è accaduto a Novi Ligure, dove cortei e scioperi hanno paralizzato la zona industriale e le arterie di collegamento.

I delegati metalmeccanici parlano senza giri di parole. Un dirigente sindacale genovese ha sintetizzato il clima: “Il piano del governo porta alla chiusura della fabbrica, con mille posti di lavoro a rischio e la prospettiva di spegnere la siderurgia non solo qui, ma in tutto il Paese”, ha denunciato nel corso dell’assemblea.

Sul territorio ligure si è mosso anche il presidente della Regione, che si è recato al presidio per schierare le istituzioni locali al fianco dei lavoratori, sottolineando come la sopravvivenza del sito produttivo sia intrecciata al destino stesso della città.

Taranto chiama Roma: “Senza un piano vero dal 1° marzo si spegne tutto”

Al polo siderurgico di Taranto – il cuore industriale e simbolico dell’ex Ilva – Fim, Fiom, Uilm e Usb hanno convocato per domani mattina, alle 7, un’assemblea unitaria davanti alla portineria imprese per discutere la risposta alle scelte del governo e decidere il calendario delle prossime azioni di lotta.

La critica centrale dei sindacati è semplice e brutale: l’esecutivo ha messo sul tavolo misure tampone su cassa integrazione e formazione, ma continua a non presentare un vero piano industriale, con obiettivi chiari su produzione, investimenti, tecnologie e occupazione.

Un dirigente di categoria lo ha detto in modo che non lascia spazio a interpretazioni: “Il piano per l’ex Ilva è un piano morto. Se resta questo, dal primo marzo tutti gli stabilimenti saranno destinati a fermarsi, nessuno escluso”. Un altro leader metalmeccanico, impegnato da anni nella vertenza, ha accusato il governo di aver messo a rischio l’intero percorso di decarbonizzazione: “Così si porta al fallimento la transizione verde della siderurgia. Chiediamo di riaprire subito un confronto vero sul futuro del settore”.

Cassa integrazione, formazione e l’illusione del “compenso pieno”

Al tavolo romano, il ministro delle Imprese ha ribadito che non è previsto alcun aumento delle 4.450 unità già collocate in cassa integrazione, mentre per altri 1.550 lavoratori è stato annunciato un percorso di formazione di almeno 60 giorni, formalmente equiparato alla presenza in fabbrica ai fini delle retribuzioni e degli istituti contrattuali, ferie incluse.

Per i sindacati, però, si tratta di un’operazione cosmetica. La formazione è considerata un palliativo che non risolve il nodo cruciale: cosa succede agli impianti e ai volumi produttivi nei prossimi anni? Senza un calendario chiaro degli investimenti e della conversione tecnologica, la combinazione di cassa integrazione estesa e percorsi formativi rischia di diventare un’anticamera degli esuberi strutturali.

Anche altre sigle, oltre alle confederazioni metalmeccaniche tradizionali, hanno espresso forti preoccupazioni, avvertendo che un nuovo piano industriale, se non accompagnato da risorse certe e da un impegno forte dello Stato, potrebbe generare ulteriori esuberi, colpendo sia il personale diretto sia l’indotto, appalti e trasporti.

Green steel sulla carta: cosa prevede davvero la decarbonizzazione

Sul versante ambientale, l’esecutivo rivendica un progetto ambizioso: rendere Taranto il primo grande hub europeo di “acciaio verde”, con un piano di decarbonizzazione da realizzare in quattro anni e l’obiettivo dichiarato di produrre solo acciaio a basse emissioni nel più breve tempo possibile.

Nello scenario circolato nelle ultime settimane, nello stabilimento pugliese è previsto un reattore di riduzione diretta del minerale (DRI) alimentato da gas e idrogeno, affiancato da fino a tre forni elettrici. Le tecnologie, sulla carta, consentirebbero un taglio rilevante di CO₂ rispetto agli altiforni tradizionali.

Ma proprio qui, secondo molti esperti del settore, si apre il paradosso: senza una garanzia di approvvigionamento di energia a prezzi competitivi e senza un piano infrastrutturale per l’idrogeno, la transizione rischia di restare un esercizio da slide. La decarbonizzazione richiede non solo nuovi forni, ma anche reti, contratti di fornitura a lungo termine e un quadro stabile di incentivi, altrimenti l’ex Ilva corre il rischio di diventare un impianto sperimentale troppo costoso per qualsiasi investitore.

La giungla delle offerte: fondi americani, cordate e soggetti “misteriosi”

Nel frattempo, sullo sfondo della mobilitazione, resta aperta la partita della vendita. In questi mesi sono arrivate dieci manifestazioni d’interesse per l’acquisto degli asset degli stabilimenti ex Ilva, con due offerte per l’intero perimetro industriale e altre per singoli complessi.

Tra i soggetti più citati compaiono il fondo statunitense Bedrock Industries e una cordata che vede insieme Flacks Group e Steel Business Europe. Bedrock avrebbe già trasmesso una seconda proposta, ma la distanza sulle condizioni economiche e sugli impegni industriali resterebbe significativa. Flacks si presenta come un gruppo specializzato nel rilancio di aziende in difficoltà, con un profilo agile e orientato alle ristrutturazioni rapide.

A questi nomi si aggiungono altri potenziali player internazionali, compresi soggetti industriali provenienti da aree extraeuropee e grandi gruppi energetici interessati alle sinergie fra acciaio, gas e idrogeno. Ma, al di là degli annunci, per i lavoratori il quadro è ancora nebuloso: la sensazione diffusa, nelle assemblee di questi giorni, è che nessuna offerta abbia al momento le gambe per garantire un vero progetto di lungo periodo.

Lo Stato “azionista riluttante” e la richiesta di un ruolo guida

Da mesi i sindacati insistono su un punto: se il governo considera la siderurgia un asset strategico nazionale, lo Stato deve tornare protagonista del rilancio. Non basta, sostengono, limitarsi ad accompagnare la gara fra fondi e cordate, con l’obiettivo di ridurre l’esborso pubblico: serve una regia industriale vera, che coinvolga le grandi aziende utilizzatrici di acciaio – dall’automotive alle costruzioni, fino alla meccanica avanzata – e che faccia di Taranto il perno di una filiera nazionale e non un semplice confine da mettere a gara.

Un sindacalista ha riassunto la linea con una frase che oggi rimbalza da un sito all’altro: “Se lo Stato dice che l’ex Ilva è un asset strategico, deve farsi carico di un vero progetto di rilancio in cui la presenza pubblica sia determinante, non marginale”. Un altro dirigente ha aggiunto che senza un ruolo forte del governo, nessun imprenditore privato si assumerà il rischio di investire in un impianto tanto complesso, gravato da contenziosi giudiziari, criticità ambientali e un enorme fabbisogno di capitali.

Tra salute, lavoro e clima: la città che non può più aspettare

Taranto vive tutto questo su un crinale strettissimo: da un lato la memoria di una crisi sanitaria e ambientale che ha segnato interi quartieri, dall’altro la dipendenza di migliaia di famiglie da un lavoro che continua a svolgersi sotto le ciminiere. Nei momenti di tensione, tornano alla mente gli incendi, i guasti agli impianti, i dati sulle emissioni e sull’incidenza delle patologie respiratorie, mentre il dibattito sull’acciaio “verde” si intreccia con quello, più ampio, sulla giustizia climatica.

Per questo la vertenza ex Ilva non è una semplice trattativa aziendale. È il punto di intersezione fra tre emergenze: occupazione, salute pubblica e transizione ecologica. E il rischio, ormai evidente a molti osservatori, è che il tempo della politica non sia più compatibile con il tempo delle fabbriche e con quello – ancora più esigente – delle comunità che vivono intorno agli impianti.

Dal presidio ai prossimi passi: cosa può succedere adesso

Nelle prossime ore, la mobilitazione rischia di allargarsi. Lo sciopero nazionale già annunciato dalle sigle metalmeccaniche potrebbe trasformarsi in una serie di iniziative coordinate lungo tutta la “dorsale” dell’ex Ilva, dal sito ligure a quello piemontese fino al grande complesso pugliese.

I sindacati chiedono tre impegni immediati:

  • un tavolo politico alla presenza della presidente del Consiglio, con il ritiro del piano contestato;
  • la definizione, entro poche settimane, di un cronoprogramma vincolante sugli investimenti e sulla decarbonizzazione;
  • un quadro di tutele occupazionali che escluda il ricorso a licenziamenti e riduzioni strutturali del personale, a partire dall’indotto.

Se questi segnali non arriveranno, la notte passata davanti ai cancelli potrebbe essere solo l’inizio di una stagione di conflitto lunga e imprevedibile. E allora la vera domanda, a Roma come a Taranto, non sarà più se il piano “funziona”, ma se l’Italia è davvero disposta a rinunciare a una grande siderurgia pubblicamente governata, in nome di un mercato che finora ha prodotto soprattutto incertezze. 

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