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Il diritto alla casa, quando le città chiedono allo Stato di farsi vedere

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Il diritto alla casa, quando le città chiedono allo Stato di farsi vedere
Quaranta città italiane, diverse per geografia, storia e colore politico, hanno deciso di parlare con una sola voce. Non per chiedere visibilità, ma per denunciare una mancanza che ormai pesa sulla vita quotidiana di milioni di persone: la casa. Da Roma a Milano, da Bologna a Napoli, da Torino a Bari, sindaci e assessori hanno messo insieme un piano casa nazionale fatto di dieci proposte concrete. Un documento che nasce dal basso, dall’esperienza di amministrazioni che ogni giorno si misurano con liste d’attesa, sfratti, affitti fuori scala, studenti senza alloggio.

Il diritto alla casa, quando le città chiedono allo Stato di farsi vedere

In Italia la questione abitativa non riguarda più soltanto chi è ai margini. È diventata una frattura sociale trasversale. Colpisce il ceto medio impoverito, i lavoratori con contratti instabili, i giovani che si spostano per studiare o lavorare, le famiglie monoreddito, gli anziani. Il mercato immobiliare, spinto dall’aumento dei prezzi e dalla diffusione degli affitti brevi, ha cambiato pelle. Le città sono diventate sempre più care, sempre meno accessibili. E l’idea che la casa sia un diritto, più che un bene finanziario, si è lentamente scolorita.

I comuni come trincea

Negli ultimi anni i comuni hanno provato a tamponare come hanno potuto. Chi ha investito nella riqualificazione delle case popolari, chi ha costruito nuovi alloggi, chi ha puntato sugli studentati, chi ha creato agenzie sociali per l’affitto. In molti casi si è tentato anche di mettere un freno agli affitti brevi, soprattutto nei centri storici più turistici, dove interi quartieri sono stati trasformati in dormitori per visitatori. Ma l’azione locale, da sola, non basta. Le risorse sono limitate, le norme fragili, i ricorsi frequenti. E così la buona volontà si scontra con i limiti strutturali.

Le dieci proposte, un’agenda alternativa

Il piano delle città prova a disegnare un’agenda alternativa. Si parte dal recupero e dalla manutenzione dell’edilizia residenziale pubblica, con una legge nazionale che renda omogenei i criteri di accesso alle case popolari. Si chiede poi che gli immobili pubblici inutilizzati vengano trasferiti gratuitamente ai comuni, per essere trasformati in alloggi. C’è il rifinanziamento del fondo per la morosità incolpevole, pensato per chi non riesce a pagare l’affitto non per scelta, ma per difficoltà oggettive.

Affitti brevi e vuoti urbani

Uno dei nodi più politici riguarda gli affitti brevi. Le città chiedono una legge nazionale che dia strumenti chiari e difendibili, superando l’attuale giungla di ordinanze spesso impugnate in tribunale. Allo stesso tempo si propone di incentivare i contratti a canone concordato, riducendo le tasse per chi affitta a prezzi calmierati, e di penalizzare fiscalmente chi lascia gli immobili vuoti. È il tentativo di rimettere equilibrio tra rendita e funzione sociale dell’abitare.

Costruire meno caro, costruire meglio

C’è anche una riflessione sui costi della nuova edilizia pubblica. Le città propongono di favorire appalti che utilizzino modelli prefabbricati, più economici e veloci, per aumentare l’offerta di case popolari. Una scelta che parla di pragmatismo più che di ideologia: meno tempi, meno costi, più alloggi.

Studenti, il termometro della crisi


La questione degli studentati è forse la più rivelatrice. Gli alloggi pubblici sono insufficienti, quelli privati spesso proibitivi. Il rischio è che il diritto allo studio venga subordinato al reddito familiare e al luogo di nascita. Per questo il piano chiede più risorse e l’integrazione degli studentati privati nel sistema pubblico, evitando che fondi statali finiscano per sostenere offerte a prezzi inaccessibili.

La voce di Bologna e delle città

Emily Clancy, vicesindaca di Bologna, sintetizza il senso dell’iniziativa: le città stanno facendo la loro parte, ma non possono reggere da sole una crisi abitativa che è ormai strutturale. Senza un piano nazionale, senza risorse stabili, senza un’inversione di rotta dopo decenni di disinvestimento pubblico, il rischio è che l’emergenza diventi normalità.

Gli annunci che non diventano politiche


Sul piano politico, il contrasto è evidente. Gli annunci non sono mancati. Giorgia Meloni ha parlato più volte di un piano casa nazionale, Matteo Salvini aveva immaginato un intervento da 15 miliardi di euro, poi ridimensionato fino a scomparire. Alla prova dei fatti, però, non c’è stato spazio neppure per un emendamento da 877 milioni nella legge di Bilancio. Le parole sono rimaste parole, mentre i prezzi continuano a correre.

La casa come questione democratica

Il piano delle città è, in fondo, un atto di accusa e una proposta insieme. Dice che il diritto alla casa è tornato a essere una questione democratica. Decide chi può restare nelle città e chi deve andarsene, chi può studiare e chi no, chi può costruire un futuro e chi resta sospeso. Senza un intervento pubblico forte, le città rischiano di trasformarsi in spazi selettivi, riservati a chi può permetterseli.

Un segnale politico che non può restare inascoltato

Quaranta città non fanno una rivoluzione, ma lanciano un segnale. Chiedono allo Stato di farsi vedere, di uscire dalla stagione degli annunci e di entrare in quella delle politiche strutturali. Perché l’abitare non è solo una voce di bilancio o una questione urbanistica. È il luogo dove si gioca, ogni giorno, l’idea stessa di comunità.
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