Fiumi di inchiostro sono stati spesi per cercare di decodificare – o meglio “craccare” – il “codice dell’innovazione” che ha reso possibile il miracolo di Silicon Valley o, più in generale, dei grandi centri di ricerca statunitensi in grado di generare poderosi ritorni economici.
Il mondo oggi sta conoscendo nuovi avvincenti miracoli imprenditoriali. Penso a Berlino, che il sindaco Klaus Wowereit, solo nel 2004, definiva “Arm aber sexy” (povera ma sexy) e che oggi è – insieme a Londra – uno dei centri più ricchi di imprese innovative: la città stessa può essere considerata alla stregua di una vera e propria startup.
Ma forse il caso più eclatante è quello israeliano.
Henry Rome, sul Jerusalem Post, ha cercato di definire i peculiari ingredienti della “zuppa israeliana”, una ricetta in cui si amalgamano perfettamente peculiari caratteri nazionali, una riuscita politica industriale, un solido sistema universitario, una continua interazione tra il mondo civile e quello militare e un particolare ruolo del decisore pubblico.
In Israele il primo capitalista di ventura è stato infatti lo Stato tramite uno specifico fondo denominato Yozma che dal 1991, con un stanziamento iniziale di 100 milioni – accompagnato dalla creazione di 24 centri di incubazione tecnologica – ha avuto la capacità di generare ritorni stimati per quasi 4 miliardi. Da non trascurare anche il gran numero di donne impegnate nel settore hi-tech.
Per chi volesse approfondire l’argomento, consiglio di leggere “Laboratorio Israele” di Dan Senor e Saul Singer.
E in Italia? È evidente che nel nostro Paese si respira un certo fermento sul fronte culturale e comunicativo, ma sul versante normativo e su quello dell›azione di governo siamo essenzialmente in una fase di stallo.Inoltre, a differenza di altre esperienze internazionali, ci manca una grande storia di successo, una “exit” con metriche interessanti tali da dissipare le diffidenze degli investitori in modo da dare tonicità al movimento degli startupper italiani.
Senza dimenticare le peculiarità del sistema economico. Infatti, come ha ricordato Riccardo Donadon, presidente di H-Farm: “Creare una startup non basta. Bisogna anche fare in modo che cresca e si sviluppi, andando a integrare il tessuto produttivo. Le imprese innovative devono aiutare le Pmi a essere competitive in un mondo in continuo cambiamento».
Il problema certamente è il difficilissimo contesto in cui ci troviamo a operare, dove una tripla crisi – istituzionale, economica e politica – sta schiacciando il nostro Paese che appare sempre più incapace di innovare e competere in modo sistemico. Per non parlare poi dell’emergenza educativa espressa dai dati OCSE.
Nel Lazio, come ci ricorda Andrea Chiappetta, “le politiche dell’innovazione hanno fatto molti passi verso l’equiparazione agli standard europei. D’altro canto, il gap da colmare non è poco ma il tessuto imprenditoriale e amministrativo della Regione è un humus ottimo per sperimentare un’innovazione che sia figlia del connubio tra pubblico e privato. Roma e il Lazio sono un hub naturale per chi, da sud o nord, voglia avere una porta verso l’estero. La digital transformation guiderà i prossimi decenni, e sarà uno degli elementi fondamentali dell’innovazione, ma, pur da convinto “digitale”, non deve essere la sola forma di innovazione. Penso all’innovazione sociale, all’innovazione nella finanza, all’innovazione dei processi della PA, che è digitalizzazione ma è soprattutto un rivolgimento culturale. L’unico modo: fare sistema e dare chance, puntare e scommettere, perchè quando si parla di start up si parla di una scommessa”.
Dobbiamo essere tutti pervasi da un senso di urgenza, con la consapevolezza che chi non si rassegna a lasciare l’Italia deve fare i conti con la dura legge evidenziata dall’economista Enrico Moretti: “nel panorama economico attuale non conta tanto cosa fai o chi conosci, ma dove vivi”.