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Bufera su Hegseth, il ministro che imbarazza perfino Trump

- di: Marta Giannoni
 
Bufera su Hegseth, il ministro che imbarazza perfino Trump
Dal voto di conferma al fotofinish alle bombe sulle barche dei narcos: come il ministro della Difesa è diventato una zavorra politica per la Casa Bianca.

All’inizio doveva essere l’ennesima nomina “shock” di Donald Trump, destinata a parlare alla sua base e a tenere sulle spine l’establishment di Washington. Oggi, invece, Pete Hegseth, ex volto televisivo e ora capo del Pentagono, si sta trasformando in un serio problema politico per il presidente. Più di un grande quotidiano americano lo descrive apertamente come “un problema politico per Trump sin dall’inizio”, sottolineando come, col passare dei mesi, il suo peso sulla presidenza stia diventando sempre più ingombrante.

Le indagini sulle operazioni militari contro le barche dei narcos nel Mar dei Caraibi, i dubbi sul rispetto del diritto internazionale, la lunga scia di polemiche sulla sua condotta privata e perfino l’uso disinvolto di chat crittografate hanno incrinato un equilibrio già fragile. Finora Trump ha scelto di difenderlo, ma nel mondo della sicurezza nazionale americano cresce la domanda: quanto a lungo il presidente potrà permettersi di tenere al suo fianco un ministro così esposto?

Dal talk show al vertice della Difesa

Prima di arrivare al Pentagono, Hegseth era noto soprattutto come commentatore televisivo conservatore e veterano dell’Iraq e dell’Afghanistan. Una figura perfetta per il racconto trumpiano dell’America muscolare, patriottica e anti “élite”. Proprio questo profilo, però, ha insospettito sin dall’inizio una parte degli apparati militari e diplomatici, abituati a segretari alla Difesa con carriere istituzionali più tradizionali.

La diffidenza è esplosa in pieno durante le audizioni al Senato: dossier spinosi su presunte condotte sessuali inappropriate, abuso di alcol e comportamento aggressivo hanno alimentato settimane di fuoco politico e mediatico. Alcuni senatori, anche nel campo repubblicano, hanno messo in dubbio la sua capacità di guidare il più potente apparato militare del pianeta.

La conferma in Senato appesa al voto di JD Vance

Il momento chiave è arrivato a fine gennaio 2025, quando il Senato si è espresso sulla nomina. Il risultato: 50 a 50. A spezzare l’equilibrio è stato il vicepresidente JD Vance, che ha votato a favore consentendo a Hegseth di diventare segretario alla Difesa. Un via libera tecnicamente legale ma politicamente fragilissimo, che ha reso evidente quanto la sua figura fosse divisiva.

Nel mondo della sicurezza nazionale, molti hanno letto quel voto come un avvertimento: “Hai il posto, ma sei già sotto osservazione”. Da allora, qualsiasi nuovo scandalo è stato interpretato come un mattone in più sul peso che Hegseth rappresenta per la Casa Bianca.

Le chat cifrate e il caso dei piani militari anticipati

Il primo grande terremoto della sua gestione è arrivato con le chat su app crittografate. In una conversazione di gruppo, nata per coordinare figure di punta dell’amministrazione, sarebbero circolati dettagli sulle operazioni militari in Yemen e in altre aree sensibili prima che i raid fossero lanciati.

La vicenda è esplosa quando un giornalista, aggiunto per errore alla chat, ha reso pubblici gli scambi. Funzionari del Pentagono e senatori democratici hanno denunciato un “vulnus di sicurezza”, accusando il capo della Difesa di trattare informazioni riservate come se fosse ancora in studio TV. Un senatore ha parlato di un uso “inaccettabile” di app non classificate per discutere piani militari, mentre esperti di intelligenza hanno richiamato il rischio di intercettazioni da parte di potenze straniere.

Hegseth ha replicato seccamente, sostenendo che non fossero stati condivisi “piani di guerra” e attaccando i media che avevano raccontato il caso. Ma il danno di immagine, soprattutto intra-Pentagono, era fatto: molti militari di carriera hanno iniziato a percepirlo come un politico in uniforme, più attento alle narrazioni che alle procedure.

La “guerra alle barche della droga” nel Caribe

È però con la campagna contro le imbarcazioni dei narcotrafficanti nel Mar dei Caraibi che la posizione di Hegseth ha iniziato a scricchiolare veramente. Nell’ambito di un’offensiva voluta da Trump per colpire i cartelli che usano la rotta caraibica e l’area intorno al Venezuela, le forze speciali e l’aviazione USA hanno condotto una serie di raid contro barche sospette, presentati pubblicamente come successi nella “guerra alla droga”.

Il problema è che l’operazione, partita come classica missione di interdizione, si è trasformata in un caso giudiziario e politico esplosivo. Il raid del 2 settembre 2025 contro un motoscafo sospettato di trasportare droga è finito al centro di inchieste giornalistiche e interrogativi dei giuristi: secondo più ricostruzioni, dopo un primo attacco che aveva già neutralizzato il bersaglio, sarebbe stato autorizzato un secondo strike sui sopravvissuti.

Nelle settimane successive sono emersi dettagli sulle comunicazioni di catena di comando: al vertice, secondo queste ricostruzioni, ci sarebbe stato proprio Hegseth, che avrebbe impartito un ordine verbale estremamente duro sulla necessità di non lasciare nessuno vivo. Un ammiraglio sul campo avrebbe poi tradotto quell’indicazione nella decisione operativa di colpire di nuovo.

Accuse di crimini di guerra e indagini bipartisan

Il cuore dello scandalo è giuridico prima ancora che politico. Secondo vari esperti di diritto internazionale umanitario, un ordine che implica di non fare prigionieri e di eliminare anche i sopravvissuti fuori combattimento rischia di configurarsi come crimine di guerra e, nel contesto statunitense, perfino come reato perseguibile in base alla legislazione federale.

Gli esperti ricordano che il diritto di conflitto armato tutela feriti e persone che non rappresentano più una minaccia immediata. Colpire una seconda volta un’imbarcazione ormai fuori uso, con persone presumibilmente incapaci di combattere, potrebbe violare proprio questo principio. In più, la campagna contro le barche dei narcos non è formalmente inquadrata come guerra tradizionale: un elemento che rende ancora più incerta la base legale per l’uso della forza letale in modo esteso.

Di fronte all’ondata di polemiche, le commissioni Forze armate di Camera e Senato hanno aperto indagini, chiedendo accesso a ordini operativi, registrazioni audio e report interni. Parlamentari di entrambi i partiti hanno insistito sul fatto che, se fosse provato un ordine illegale, non basterebbe una semplice censura politica: si aprirebbe la strada a possibili responsabilità penali personali.

La difesa di Hegseth e il sostegno (per ora) di Trump

Pubblicamente, Hegseth ha respinto tutte le accuse. Ha definito le ricostruzioni giornalistiche “false” e ha insistito sul fatto che si sia trattato di un’operazione legittima contro “narco-terroristi”, spiegando che qualsiasi decisione è stata presa nel quadro delle regole d’ingaggio e delle leggi statunitensi.

Donald Trump, dal canto suo, ha scelto di schierarsi al fianco del ministro, pur con qualche sfumatura. In conferenze stampa e interviste ha dichiarato: “Io gli credo”, riferendosi alla versione di Hegseth, ma ha anche lasciato intendere che personalmente non avrebbe approvato un secondo attacco sui superstiti, se gli fosse stato sottoposto in quei termini. Un modo per difendere il suo uomo senza legarsi mani e piedi alle decisioni operative finite nel mirino.

Nel frattempo, alla Casa Bianca i portavoce hanno assicurato che “tutte le operazioni sono state condotte nel rispetto del diritto”, ma le risposte a molte domande tecniche restano elusive. Proprio questa ambiguità ha alimentato il sospetto, tra i militari, che la comunicazione politica stia cercando di scaricare le responsabilità sulla catena di comando tattica, isolando l’ammiraglio che ha autorizzato il secondo strike pur di proteggere il vertice politico.

Altre ombre: i raid nel Pacifico e la morte di sospetti narcos

Come se non bastasse, nelle ultime settimane un’altra operazione ha riportato il nome di Hegseth al centro del dibattito: l’attacco a due imbarcazioni sospettate di trasportare droga nell’oceano Pacifico, conclusosi con la morte di sei persone. Anche in quel caso il Pentagono ha rivendicato il blitz come un successo nella lotta ai cartelli, ma organizzazioni per i diritti umani e alcuni parlamentari hanno chiesto chiarezza su regole d’ingaggio, prove disponibili e proporzionalità dell’uso della forza.

L’impressione, nei corridoi di Washington, è che la strategia di Hegseth stia costruendo una nuova dottrina “dura” contro il narcotraffico via mare, ma al prezzo di aprire una serie di fronti legali che potrebbero travolgere non solo lui, bensì l’intera amministrazione.

Un “problema politico” sempre più isolato

Ripercorrendo gli ultimi mesi, emerge un filo rosso: molti dei principali consiglieri alla sicurezza nazionale di Trump guardano a Hegseth con crescente diffidenza. Viene descritta una squadra in cui il capo del Pentagono ha un peso politico notevole ma un sostegno interno sorprendentemente debole. Alcuni consiglieri sono convinti che la sua permanenza al vertice della Difesa stia diventando più un rischio che un vantaggio.

C’è chi, dietro le quinte, spinge per una “via d’uscita ordinata”: un avvicendamento che consenta al presidente di salvare la faccia, rivendicare la linea dura contro i narcos e al tempo stesso scaricare su Hegseth la responsabilità delle decisioni più controverse. Altri temono che un siluramento così clamoroso sarebbe letto come un’ammissione di colpa politica e potrebbe aprire la strada a nuove richieste di indagini.

L’ipotesi impeachment che resta sullo sfondo

Sul piano formale, uno degli strumenti più estremi a disposizione del Congresso sarebbe l’impeachment del capo del Pentagono. Ma, al momento, questa prospettiva appare lontana. I leader democratici lo ammettono apertamente: con Camera e Senato controllati dai repubblicani, un procedimento del genere difficilmente andrebbe lontano.

Il leader dei democratici alla Camera, Hakeem Jeffries, lo ha detto senza giri di parole, prevedendo che una messa in stato di accusa di Hegseth verrebbe affossata in partenza. In sostanza, secondo la sua lettura, i repubblicani non avrebbero alcun interesse a portare in aula articoli di impeachment contro il ministro della Difesa scelto da Trump.

Jeffries ha spiegato che, in un Congresso dominato dal Grand Old Party, “i repubblicani non permetteranno mai che gli articoli di impeachment arrivino davvero al voto” e che, alla fine, sarà lo stesso Trump a dare il segnale di bloccare qualsiasi iniziativa ostile al suo ministro. Tradotto: la strada giudiziaria resta teoricamente aperta, ma politicamente sbarrata.

Il risultato è un paradosso: da un lato, crescono le richieste di chiarezza sulle operazioni nel Caribe e sul rispetto delle leggi di guerra; dall’altro, il numero dei voti repubblicani in Congresso rende estremamente improbabile un impeachment, almeno nel breve periodo. Hegseth resta così in una sorta di “zona grigia”: troppo indebolito per essere considerato un asset, ma troppo protetto politicamente per essere rimosso con un voto parlamentare.

Cosa può succedere adesso

Nel breve periodo, la Casa Bianca cercherà verosimilmente di guadagnare tempo: collaborare formalmente con le indagini, ribadire la fiducia nel ministro e insistere sul frame della “guerra ai cartelli” come priorità di sicurezza nazionale. Ma nel medio periodo il nodo è più politico che tecnico.

Da un lato, Hegseth incarna perfettamente l’immagine di forza e di rottura con i cliché dell’establishment su cui Trump ha costruito la sua identità. Dall’altro, ogni nuovo dossier – dalle chat crittografate ai raid contro le barche dei narcos – aumenta il costo di tenerlo al suo posto, sia verso gli alleati internazionali sia verso l’opinione pubblica interna.

Se le prove raccolte da Congresso e media dovessero rafforzare l’ipotesi di ordini illegali, il presidente si troverebbe davanti a un bivio: sacrificare Hegseth per disinnescare l’esplosione politica, oppure raddoppiare nella difesa del ministro trasformando il caso in una nuova battaglia contro “i burocrati” e “i giudici”, con rischi enormi sul piano istituzionale.

Per ora, la sola certezza è che il capo del Pentagono non è più un asset politico, ma una zavorra. E ogni nuovo dettaglio sui colpi sparati nel buio del Caribe rende il suo posto nel gabinetto di Trump un po’ più precario.

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