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Bce e Fmi avvertono: l’Europa cresce poco e a due velocità

- di: Matteo Borrelli
 
Bce e Fmi avvertono: l’Europa cresce poco e a due velocità

L’area euro evita la recessione ma resta intrappolata in una crescita fiacca: i Paesi del Sud e del Nord innovativo corrono, i grandi motori industriali – Italia e Germania – restano al palo. E le istituzioni internazionali chiedono riforme vere, non slogan.

(Foto: Christine Lagarde, presidente della Bce).

L’ultimo giro di numeri ha tolto ogni alibi: l’Europa non è in crisi nera, ma nemmeno in ripresa robusta. La Bce, nel suo Bollettino economico di novembre 2025, certifica per il terzo trimestre una crescita del Pil dell’area euro intorno allo 0,2% congiunturale, dopo mesi di andatura a passo ridotto. Il Fondo monetario internazionale, nel Regional Economic Outlook di ottobre 2025, usa un’espressione che pesa come un macigno: prospettive di medio periodo “modeste”.

Dietro quella media, però, il quadro si spacca: Spagna, Francia, Paesi Bassi e i Paesi più innovativi del Nord continuano a crescere, mentre Italia e Germania restano quasi ferme, schiacciate dalla debolezza del manifatturiero e dalla dipendenza dall’export industriale. È la fotografia di una “Europa a due velocità” che Bce e Fmi leggono con la stessa chiave: senza riforme profonde su produttività, mercato unico e mercati dei capitali, la crescita rischia di restare mediocre per anni. :contentReference[oaicite:0]{index=0}

Un continente che cresce poco e male

Il dato dell’area euro – +0,2% nel terzo trimestre 2025 – è in linea con le proiezioni dello staff Bce: un’economia che regge, grazie ai servizi e al turismo, ma che continua a pagare la fiacchezza dell’industria e la frenata degli scambi globali, appesantiti da dazi e tensioni geopolitiche. Nel Bollettino, Francoforte ricorda che per il 2025–2027 le proiezioni di crescita dell’area si aggirano intorno all’1% scarso l’anno, con export in difficoltà e investimenti frenati dall’incertezza. :contentReference[oaicite:1]{index=1}

A rendere evidente la spaccatura sono i numeri per Paese. Nel terzo trimestre, Spagna, Francia e Paesi Bassi segnano un incremento del Pil più vivace, mentre il prodotto interno lordo di Germania e Italia resta sostanzialmente invariato. A Nord, economie fortemente orientate all’innovazione come Svezia e Danimarca continuano a correre più della media europea, sostenute da digitale, ricerca e servizi ad alto valore aggiunto.

La stessa Bce, nel documento, enfatizza le “notevoli differenze tra le maggiori economie dell’area dell’euro”: da una parte chi ha saputo spostare il baricentro su innovazione e servizi avanzati, dall’altra chi è ancora legato a un modello industriale tradizionale che soffre il nuovo contesto globale.

Italia e Germania, gemelli diversi in panne

Roma e Berlino si ritrovano nello stesso risultato – crescita zero – ma per strade diverse. La Germania sconta la lunga crisi dell’auto, alle prese con la transizione all’elettrico, la concorrenza cinese e i dazi incrociati. L’Italia paga un mix ormai noto: bassa produttività cronica, infrastrutture lente, burocrazia densa, ritardi sugli investimenti in innovazione.

Gli indicatori anticipatori del manifatturiero segnalano solo una “moderata” inversione di tendenza per i prossimi mesi: la Bce vede una “dinamica leggermente positiva” per l’industria e un rafforzamento ulteriore dei servizi, ma insiste sul fatto che l’insieme produce soltanto una crescita “moderata” dell’area euro, non il salto necessario per cambiare passo. :contentReference[oaicite:2]{index=2}

La Banca d’Italia, nel Bollettino di ottobre 2025, prevede una crescita italiana attorno allo 0,6–0,7% l’anno tra 2025 e 2027: troppo poco per ridurre in modo deciso il rapporto debito/Pil e il divario di reddito con gli altri partner. In parallelo, le stime tedesche indicano un Pil solo lievemente positivo nel 2025, dopo mesi di stagnazione. :contentReference[oaicite:3]{index=3}

Il quadruplo shock: pandemia, guerra, inflazione, dazi

Bce e Fmi ricordano che la performance dell’economia europea va letta anche alla luce di un quadruplo shock in pochi anni: pandemia, guerra in Ucraina, fiammata inflazionistica, nuova ondata di dazi e protezionismo. Su questo terreno accidentato l’Europa, nel complesso, ha retto meglio di quanto molti temessero, ma al prezzo di una crescita che resta debole. :contentReference[oaicite:4]{index=4}

Il Fmi, nel suo rapporto di ottobre, sottolinea che gli export gains accumulati negli anni precedenti si stanno erodendo proprio per effetto dei nuovi dazi e delle tensioni commerciali, mentre la spesa pubblica in difesa e in sostegni vari non è bastata a sbloccare investimento privato e produttività. In sintesi, l’Europa ha speso molto per contenere gli shock, ma ha ottenuto poco in termini di crescita potenziale.

Il Pnrr e la promessa mancata del ciclo virtuoso

In questo quadro rientra il grande esperimento del Pnrr e dei piani nazionali di ripresa. L’idea iniziale era chiara: fondi europei in cambio di riforme, per scatenare un ciclo virtuoso di investimenti e produttività. Il bilancio finale si potrà fare solo a conclusione dei programmi, ma Bce e Fmi convergono su un punto: senza riforme strutturali pienamente attuate, una parte importante di quella spinta rischia di esaurirsi con la fine dei flussi finanziari.

Il Fmi, guardando al caso italiano, riconosce che il Paese ha ridotto il deficit e migliorato la posizione sui mercati, ma avverte che con una crescita tendenziale attorno allo 0,7% e un debito ancora molto elevato, la vera discriminante sarà la capacità di trasformare gli investimenti del Pnrr in un aumento stabile di produttività. :contentReference[oaicite:5]{index=5}

La politica, però, tende a privilegiare misure dal rendimento immediato in termini di consenso – bonus, tagli fiscali, sconti selettivi – rispetto a riforme che scontentano qualcuno oggi e producono benefici solo domani. È qui che si consuma, per Bce e Fmi, la distanza tra l’Europa che annuncia riforme e l’Europa che le realizza davvero.

Bce: più produttività, meno frammentazione

Nell’ultimo Bollettino, la Bce non si limita a descrivere lo stato dell’economia: lancia ai governi un messaggio assai esplicito. Le politiche di bilancio e quelle strutturali, si legge, devono “stimolare la produttività, la competitività e la capacità di tenuta dell’economia”, concentrando la spesa su investimenti strategici e mantenendo al tempo stesso la sostenibilità dei conti pubblici. :contentReference[oaicite:6]{index=6}

Francoforte indica tre priorità:

  • Spingere gli investimenti in innovazione, infrastrutture verdi e digitali, capitale umano.
  • Evitare misure fiscali generalizzate che alimentano il debito senza rafforzare il potenziale di crescita.
  • Ridurre la frammentazione dei mercati europei, soprattutto finanziari, per incanalare il risparmio verso progetti produttivi.

Proprio su questo fronte la Bce parla di importanza “cruciale” di un mercato dei capitali pienamente integrato, capace di convogliare l’enorme risparmio delle famiglie europee verso imprese e infrastrutture. È l’idea alla base dell’Unione dei mercati dei capitali, spesso evocata ma ancora lontana dall’essere davvero compiuta.

Fmi: senza riforme il potenziale resta bloccato

Se la Bce insiste su produttività e investimenti, il Fmi alza ulteriormente il tiro sulle riforme. Nel Regional Economic Outlook – Europe del 17 ottobre 2025, il Fondo afferma che le prospettive di medio termine sono “subdued”, cioè smorzate, ma aggiunge che non è un destino scritto: una robusta agenda di riforme potrebbe cambiare il quadro. :contentReference[oaicite:7]{index=7}

Sulla base di studi specifici, gli economisti di Washington stimano che eliminare le principali barriere interne al commercio e alla mobilità del lavoro tra i Paesi Ue – avvicinando l’Europa al livello di integrazione dei singoli Stati Usa – potrebbe far aumentare la produttività di oltre il 20%. Persino un pacchetto “intermedio”, che riduca solo una parte dei divari strutturali, garantirebbe guadagni nell’ordine dell’8–9%. :contentReference[oaicite:8]{index=8}

Alfred Kammer, direttore del Dipartimento europeo del Fmi, lo riassume così: “La vera zavorra dell’Europa non sono i vincoli esterni, ma il ritardo interno sulle riforme”, avvertendo che senza una svolta su concorrenza, mercato del lavoro e capitali, il divario di reddito con gli Stati Uniti tenderà a crescere, nonostante le potenzialità del continente.

Barriere interne come dazi: un mercato unico ancora incompiuto

Uno dei passaggi più impressionanti delle analisi Fmi riguarda il costo delle barriere interne ancora presenti nel mercato unico. Secondo le stime citate da Kammer, gli ostacoli regolamentari e amministrativi agli scambi tra Paesi Ue equivalgono a un dazio medio del 44% sui beni e addirittura del 110% sui servizi. Per dare un ordine di grandezza: il dazio esterno medio dell’Unione verso il resto del mondo è nell’ordine del 3%. :contentReference[oaicite:9]{index=9}

Significa che, nonostante decenni di integrazione, fare business da un Paese Ue all’altro è ancora molto più complicato che tra due Stati americani. Le imprese devono fare i conti con regole diverse, procedure multiple, mercati finanziari segmentati. Il risultato è che molte aziende restano intrappolate nelle dimensioni del mercato nazionale, senza mai raggiungere la scala necessaria per competere a livello globale.

Letta e Draghi: il piano per un salto di qualità europeo

È in questo contesto che gli ex premier italiani Enrico Letta e Mario Draghi sono diventati, loro malgrado, i “consiglieri” dell’Europa su come uscire dalla trappola della crescita bassa. Nel suo rapporto del 2024 sul futuro del mercato unico, Letta propone una vera “Savings and Investment Union”, capace di mobilitare il risparmio europeo verso investimenti comuni, e suggerisce di aggiungere una “quinta libertà” alla libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali: quella di ricerca, innovazione e formazione. :contentReference[oaicite:10]{index=10}

Draghi, nel suo rapporto sulla competitività europea, insiste sulla necessità di un cambio radicale: concentrarsi su pochi grandi progetti comuni (energia, difesa, digitale), mettere in rete le filiere industriali strategiche, ridurre la frammentazione regolatoria che aumenta i costi e abbassa la produttività. :contentReference[oaicite:11]{index=11}

Le ricette di Letta e Draghi dialogano direttamente con le richieste di Bce e Fmi: più integrazione dei mercati, più investimenti mirati, più riforme strutturali. La differenza è che, per trasformarsi in realtà, queste proposte devono superare resistenze nazionali radicate e un processo decisionale europeo spesso lentissimo.

Il costo politico della lentezza

La diagnosi, insomma, è chiara. Meno chiara è la volontà politica di agire. Ogni riforma strutturale ha vincitori e sconfitti nel breve periodo: liberalizzare un settore significa mettere in discussione rendite esistenti; rendere più efficiente la giustizia civile tocca interessi consolidati; favorire la mobilità dei lavoratori può alimentare paure nei territori che temono di perdere capitale umano.

Per questo molti governi preferiscono rinviare o limitarsi a piccoli aggiustamenti. Ma, come avvertono Bce e Fmi, il tempo economico scorre più veloce di quello politico. Una crescita “moderata” oggi significa domani scelte molto più dure su pensioni, sanità, welfare, transizione ecologica e difesa, con margini di flessibilità sempre più stretti.

L’Europa a due velocità non è più soltanto un’immagine giornalistica: è un rischio concreto di divaricazione strutturale tra chi aggancia i nuovi motori della crescita – digitale, innovazione, servizi avanzati – e chi resta ancorato a un modello che non rende quanto prima. Bce e Fmi, ognuno con il suo linguaggio, dicono la stessa cosa: o l’Unione trova il coraggio politico di usare Pnrr, mercato unico e mercati dei capitali per liberare il suo potenziale, oppure la “crescita moderata” di oggi diventerà la normalità di domani. 

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