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Orbán assediato dai mercati cerca lo scudo di Trump

- di: Jole Rosati
 
Orbán assediato dai mercati cerca lo scudo di Trump

Sovranità sotto stress tra deficit elettorale, rendimenti alle stelle e la promessa di un “ombrello” Usa.

(Foto: Viktor Orbán, premier ungherese).

Crescita quasi ferma, inflazione che non molla, deficit che sfiora il 5% e titoli di Stato fra i più rischiosi dell’Unione europea. È su questo terreno minato che Viktor Orbán si avvicina al voto di aprile, quando proverà a conquistare il sesto mandato. Per reggere l’urto, il premier ungherese ha scelto una narrativa forte: evocare un possibile “attacco alla valuta e al debito” di Budapest e, nello stesso tempo, sventolare il sostegno “illimitato” dell’amico Donald Trump come scudo contro gli speculatori.

Dietro lo slogan, però, c’è un Paese che paga caro anni di scontro con Bruxelles, finanza pubblica stressata e un rating sovrano sempre più vicino alla soglia “spazzatura”, mentre l’Europa osserva preoccupata l’esperimento di un leader che usa i mercati come parte della propria campagna elettorale.

Un premier che evoca l’assedio dei mercati

In un recente intervento pubblico, rilanciato all’inizio di novembre dai media vicini al governo, Orbán ha sostenuto che il sistema finanziario ungherese potrebbe finire nel mirino di attori esterni e che, in quel caso, Washington sarebbe pronta a intervenire. In sostanza, il premier ha lasciato intendere l’esistenza di una sorta di “paracadute” americano legato al suo rapporto privilegiato con Donald Trump.

Pochi giorni dopo, diverse testate internazionali hanno riportato dichiarazioni simili: il capo del governo ha detto di vedere “regolarmente” tentativi di pressione sul fiorino e ha ribadito che, se mai dovesse scatenarsi una vera tempesta, l’America sarebbe al fianco dell’Ungheria.

Finora nessun annuncio ufficiale di Washington ha confermato l’esistenza di un meccanismo formale di sostegno finanziario a Budapest. Ma sul piano politico, il messaggio che Orbán intende inviare agli elettori è chiarissimo: se i mercati proveranno a colpire il suo modello, lui potrà contare sull’amico alla Casa Bianca.

Deficit al 5% e rendimenti ai massimi in Europa

Il problema è che i mercati non hanno bisogno di complotti per inquietarsi: bastano i numeri. A novembre il ministro dell’Economia Márton Nagy ha ammesso che il governo ha alzato il target di deficit al 5% del Pil sia per quest’anno sia per il 2026, ben oltre i piani originari e comunque sopra il limite del 3% previsto dalle regole dell’Unione europea. Il nuovo obiettivo arriva dopo mesi di spesa extra in vista del voto, fra tagli fiscali, aumenti delle pensioni e misure a favore delle famiglie.

Le agenzie di rating osservano con crescente nervosismo. S&P Global ha già abbassato l’outlook sul debito ungherese da “stabile” a “negativo”, confermando il rating solo un gradino sopra la soglia “junk” e avvertendo che l’insieme di deficit elevati, inflazione e volatilità valutaria può mettere a rischio la credibilità del Paese.

Nel frattempo, i rendimenti dei bond ungheresi sono fra i più alti dell’Unione. Un’analisi della Commissione europea ha certificato come gli spread tra i titoli di Stato magiari e il Bund tedesco superino i 400 punti base, con costi di servizio del debito stimati come i più elevati dell’intera Ue nel biennio 2025-2026.

Fitch, da parte sua, ha confermato l’“investment grade” ma ha ricordato che il deficit, atteso stabilmente sopra il 4% del Pil, resta ben oltre la soglia di comfort. Se la spesa dovesse aumentare ancora o la crescita risultare più debole del previsto, anche questa agenzia potrebbe cambiare orientamento.

In sintesi: l’Ungheria è ancora formalmente in area investimento, ma la linea rossa del declassamento è ormai a un passo.

La spesa elettorale e la fuga in avanti di Orbán

Il contesto politico spiega perché il premier sta tirando la corda. Il bilancio 2026, approvato a giugno dal Parlamento, è costruito su una miscela esplosiva di tagli fiscali e bonus mirati, soprattutto per famiglie e pensionati. L’obiettivo dichiarato è sostenere i redditi dopo l’impennata dei prezzi che ha colpito l’Ungheria più di molti altri Paesi europei.

Ma il tempismo non è neutro. La manovra arriva alla vigilia di un anno elettorale e in un momento in cui i sondaggi mostrano per la prima volta un’opposizione di centrodestra capace di insidiare seriamente Fidesz. La scelta di Orbán è chiara: spendere oggi per provare a consolidare il consenso alle urne, rimandando il conto al futuro.

Il rovescio della medaglia è che, più il disavanzo sale, più si indebolisce la narrativa del complotto finanziario: i mercati reagiscono, prima di tutto, alla matematica dei bilanci pubblici.

Lo scudo di Trump come argomento da campagna

Da anni Orbán coltiva un rapporto privilegiato con Donald Trump, trasformandolo in un pilastro della propria politica estera. Nel luglio 2024, pochi giorni dopo il vertice Nato di Washington, il premier ungherese si è presentato a Mar-a-Lago per quella che ha battezzato “missione di pace”, incontrando l’ex presidente e descrivendolo come l’unico leader in grado di fermare la guerra in Ucraina.

Quell’asse politico, nato sull’opposizione alle sanzioni contro Mosca e sulla critica alle istituzioni multilaterali, oggi viene riutilizzato in chiave economico-finanziaria. L’idea che l’amministrazione statunitense guidata da Trump possa intervenire per difendere il fiorino e i bond ungheresi diventa un messaggio a uso interno: il leader che sfida Bruxelles non è isolato, anzi può contare sul protettore più potente del pianeta.

Secondo il racconto dei media governativi, Orbán ha spiegato che, se mai arrivasse un attacco speculativo o politico contro il sistema finanziario del Paese, Budapest potrebbe contare su un vero e proprio “scudo” americano.

Gli economisti fanno però notare che non esiste, al momento, alcun accordo strutturato paragonabile alle linee di swap tra banche centrali o ai programmi del Fondo monetario internazionale. E a Washington nessuno ha annunciato pubblicamente la volontà di rischiare capitale politico e denaro per salvare un governo che passa più tempo a litigare con Bruxelles che a dialogare con i partner.

Lo scudo di Trump, insomma, è soprattutto un argomento da comizio, utile a rafforzare il profilo del premier in campagna elettorale.

Budapest, Bruxelles e il conto dello scontro

L’evocazione dell’assedio finanziario arriva al termine di una lunga stagione di conflitti fra l’Ungheria e le istituzioni europee. Dal 2021 una parte consistente dei fondi Ue destinati a Budapest è bloccata per le preoccupazioni sulla rule of law, l’indipendenza della magistratura e l’uso dei finanziamenti europei.

Questo congelamento pesa sui conti pubblici: l’assenza di risorse europee, combinata con deficit elevati e crescita debole, contribuisce a tenere alto il costo del debito e a limitare i margini di manovra del governo. Nel frattempo, la regione dell’Europa centrale deve fare i conti con la nuova ondata di dazi e protezionismo globale, che colpisce in particolare le economie più dipendenti dall’export manifatturiero.

In questo scenario, la scelta di Orbán di aumentare ulteriormente la spesa per scopi elettorali appare come una fuga in avanti che scarica sul futuro il prezzo del consenso di oggi.

I nervi scoperti dei mercati

Che cosa significa, in concreto, “attacco a Budapest”? Gli analisti che seguono i Paesi emergenti descrivono scenari molto più ordinari, e molto meno cinematografici, di quelli evocati dal premier.

Un primo rischio è una revisione al ribasso del rating, con la possibilità che il debito ungherese venga declassato a “spazzatura” se il governo continuerà a gonfiare il deficit senza un piano credibile di rientro.

Un secondo rischio è un’ondata di vendite sui titoli di Stato, soprattutto da parte degli investitori che non possono, per mandato, detenere bond ad alto rischio. In quel caso i rendimenti salirebbero ancora e il costo per rifinanziare il debito – già fra i più elevati dell’Unione – crescerebbe, comprimendo lo spazio per la spesa sociale.

Infine c’è il fiorino. Se gli investitori percepiscono che il governo sta usando politica monetaria e fiscale per scopi elettorali, e che le istituzioni indipendenti non sono in grado di bilanciare questa deriva, la valuta può finire sotto pressione. Per ora, tassi ufficiali molto alti hanno aiutato a contenere la fuga di capitali, ma a prezzo di una stretta sul credito e sugli investimenti privati.

È questo intreccio di fattori – rating sul filo, debito caro, moneta fragile – a rendere l’Ungheria vulnerabile. Più che complotti, sono i fondamentali economici a esporre Budapest.

Una crisi ungherese con effetti europei

L’eventuale declassamento del debito magiaro a “spazzatura” non riguarderebbe solo gli investitori specializzati in mercati emergenti. L’Ungheria è parte della catena del valore industriale europea, soprattutto nell’auto e nella componentistica, e ospita grandi investimenti stranieri, a partire dai progetti legati ai veicoli elettrici.

Un’impennata dei rendimenti, una fuga di capitali o un crollo del fiorino avrebbero ripercussioni sulla fiducia di tutto il blocco centro-orientale, già sotto pressione per la combinazione di dazi americani, rallentamento tedesco e tensioni geopolitiche.

Per Bruxelles, la crisi magiara è un test di tenuta. Dopo anni di scontro sulla rule of law, la tentazione di lasciare Budapest a cavarsela da sola potrebbe essere forte. Ma un’eventuale crisi del debito in un Paese Ue, a pochi mesi da un voto che potrebbe cambiare gli equilibri del Parlamento europeo, avrebbe un costo politico enorme.

Orbán, Trump e il prezzo della sfida ai mercati

Alla vigilia del voto, il premier ungherese vuole costruire un racconto semplice: da una parte l’élite “pro-guerra” di Bruxelles, dall’altra i leader “pro-pace” come lui e Trump; da una parte i burocrati europei che bloccano i fondi, dall’altra l’America amica che promette uno scudo contro gli speculatori.

Il problema è che, nel mondo reale, i mercati sono più sensibili ai bilanci che ai messaggi politici, e che nessuna promessa, per quanto roboante, può sostituire un percorso serio di rientro dal deficit.

Se l’Ungheria finirà davvero sotto attacco, non sarà solo Budapest a essere in pericolo. Sarà l’intero progetto europeo a dover decidere quanto è disposto a pagare per tenere dentro il club un partner che usa Trump come ombrello politico e i mercati come arma retorica.

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