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Le Alpi sotto assedio: l’uomo accelera l’erosione da 3.800 anni

- di: Marta Giannoni
 
Le Alpi sotto assedio: l’uomo accelera l’erosione da 3.800 anni

Uno studio pubblicato su PNAS rivela che agricoltura, pascolo e disboscamento hanno moltiplicato l’erosione delle Alpi da 4 a 10 volte già dall’Età del Ferro.
Una trasformazione ambientale che segna l’avvento dell’“Antropocene del suolo”, con impatti duraturi su fertilità, acqua e biodiversità.
Le prove emergono dai sedimenti dei laghi alpini e dall’analisi degli isotopi di litio.
L’impronta umana è profonda, millenaria e tutt’altro che marginale.
E ora interroga il presente: come invertire la rotta?

Una lunga storia di impronte invisibili

Quando si parla di cambiamento climatico ed erosione del suolo, si tende a pensare all’industrializzazione, alle grandi deforestazioni del XX secolo o all’urbanizzazione contemporanea. Ma una nuova ricerca guidata da Julien Bouchez, geochimico del CNRS francese, racconta un’altra storia. Una storia che parte da molto più lontano.

Esaminando i sedimenti nei fondali lacustri dell’arco alpino francese, in particolare nel bacino del Lago Bourget, gli scienziati sono riusciti a ricostruire 10.000 anni di evoluzione ambientale, arrivando a un risultato tanto chiaro quanto sconcertante: l’erosione accelerata delle Alpi non è cominciata con le moderne attività industriali, ma almeno 3.800 anni fa, a partire dalle prime pratiche di pastorizia e agricoltura.

Dalle greggi ai campi: due onde successive

L’indagine ha permesso di individuare tre fasi chiave. La prima, attorno al 1850 a.C., vede le comunità montane impegnate in un’intensiva attività di disboscamento nelle aree più alte, per creare pascoli e facilitare il transito del bestiame. È il tempo dell’Età del Ferro, e già l’impatto umano comincia a destabilizzare l’equilibrio naturale tra erosione e formazione del suolo.

Una seconda fase si verifica circa mille anni dopo, nelle zone di media e bassa quota. Con l’introduzione dell’aratro e l’intensificazione delle tecniche agricole, l’erosione si diffonde anche nei fondovalle, aggravando il fenomeno. La terza fase, più graduale ma altrettanto incisiva, si sviluppa tra il periodo tardo-romano e l’età moderna, con un'accelerazione nei secoli recenti.

“È come se l’uomo avesse innestato una marcia in più al ciclo geologico del suolo, consumandolo più velocemente di quanto la natura riesca a rigenerarlo”, ha spiegato Bouchez.

Cosa ci dicono i sedimenti

La chiave di questa scoperta sta nei sedimenti lacustri, vere e proprie “scatole nere” ambientali. Gli scienziati hanno campionato isotopi di litio lungo la rete fluviale che scende dal Monte Bianco. Questi isotopi si comportano in modo diverso a seconda dell’origine dell’erosione: i processi naturali ne lasciano una traccia distinta rispetto a quelli causati da attività umane come aratura, disboscamento o pascolo intensivo.

I dati raccolti hanno mostrato una chiara discontinuità a partire da 3.800 anni fa, con un’impennata dei tassi erosivi fino a 10 volte superiori rispetto all’epoca post-glaciale. Un dato che non lascia dubbi: l’equilibrio tra produzione di suolo e perdita per erosione è stato irrimediabilmente alterato.

Antropocene pedologico: un concetto rivoluzionario

Lo studio introduce un concetto che potrebbe entrare nel lessico delle scienze ambientali: “Antropocene pedologico”. È una definizione che sottolinea come l’impatto umano sul suolo sia cominciato ben prima della rivoluzione industriale, e abbia effetti tanto profondi da modificare irreversibilmente le dinamiche geochimiche ed ecologiche della crosta terrestre.

“L’inizio delle attività agropastorali ha interrotto il bilancio naturale tra formazione del suolo ed erosione”, si legge nello studio. Questo squilibrio ha avuto ricadute dirette sulla fertilità del terreno, sulla biodiversità vegetale e animale, e sui cicli biogeochimici fondamentali, come quello dell’acqua e del carbonio.

“Una pietra miliare per ripensare il nostro rapporto con la terra, non solo come superficie ma come organismo vivo e plasmabile”, ha commentato la geologa Kate Darlington.

Un problema globale, a velocità differenziata

Uno degli aspetti più interessanti dello studio riguarda la non sincronicità dell’impatto umano sul suolo. L’accelerazione dell’erosione non è avvenuta contemporaneamente in tutte le aree montane del pianeta, ma ha seguito la diffusione delle società agropastorali e delle loro tecniche di sfruttamento del territorio.

Le Alpi francesi rappresentano uno dei primi casi documentati, ma fenomeni simili sono stati rilevati anche nei Carpazi, nel Caucaso e nell’Himalaya occidentale. Il che solleva una questione cruciale: se l’erosione accelerata non è un destino biologico, ma una scelta culturale, è anche una responsabilità politica. Significa che può essere evitata, o almeno gestita.

E oggi? Le montagne non stanno meglio

L’erosione resta oggi una delle principali minacce per le aree montane. Il 23% dei suoli alpini è considerato a rischio critico di degrado, in gran parte per effetto della combinazione tra cambiamento climatico e pratiche agricole non sostenibili.

Il problema non riguarda solo l’ambiente ma anche l’economia: l’erosione riduce la produttività agricola, aumenta il rischio di frane e inondazioni e compromette gli equilibri idrologici. Per le regioni alpine, significa un danno strutturale che mette a rischio la resilienza dei territori.

Tra lezione e futuro: cosa fare?

Lo studio di Bouchez e colleghi non si limita a una retrospettiva. È anche un monito. “Capire il passato – spiegano gli autori – è essenziale per progettare strategie di conservazione efficaci”. Tra le azioni più urgenti: riforestazione controllata, rotazione colturale, ripristino dei terrazzamenti storici e promozione di un’agricoltura di montagna compatibile con i cicli ecologici.

Molti territori alpini stanno già sperimentando progetti pilota, come il “SoilGuard” in Val d’Aosta, che combina monitoraggio satellitare, recupero delle pratiche agricole tradizionali e coinvolgimento delle comunità locali.

Riscoprire la lentezza della terra

Il messaggio finale è chiaro: il suolo non è una risorsa rinnovabile nel senso comune del termine. Si forma lentamente, quasi impercettibilmente, ma può essere distrutto in pochi decenni – o, come mostra questo studio, in pochi secoli.

È tempo di cambiare paradigma: abbandonare l’idea di un territorio da sfruttare, per riscoprirlo come patrimonio da custodire. La storia delle Alpi, scavata nei sedimenti, ci ricorda che ogni solco ha un’origine e una conseguenza. E che la responsabilità ambientale non comincia oggi, ma ci accompagna da sempre.

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