Francesca Albanese, cittadina italiana e relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi, è stata inserita dal Tesoro statunitense nella lista delle persone sanzionate. Una misura senza precedenti, arrivata nei giorni a ridosso dell’Assemblea generale Onu a New York, che interroga non solo sulla tenuta dei rapporti transatlantici, ma soprattutto sulla capacità degli Stati Uniti di proiettare la propria forza economico-finanziaria ben oltre i confini nazionali.
Francesca Albanese, la relatrice Onu colpita dalle sanzioni Usa. Il caso che fa riflettere
La decisione è maturata dopo la pubblicazione di un rapporto in cui Albanese accusava 48 multinazionali – tra cui Amazon e Microsoft – di contribuire al mantenimento dell’occupazione israeliana e alla guerra a Gaza. Washington ha interpretato quel documento come un attacco diretto al cuore del proprio sistema economico e industriale, una forma di lawfare che utilizza il diritto come arma politica. La risposta è stata immediata: non carri armati né missili, ma una sanzione personale, strumento silenzioso e invisibile capace di incidere in profondità nella vita di chi ne è colpito.
Immunità giuridica contro isolamento finanziario
Sulla carta Albanese gode delle immunità previste dalla Convenzione Onu del 1946. Nei fatti, però, la sua vita quotidiana rischia di trasformarsi in un labirinto. Le sanzioni personali equivalgono a un embargo individuale: i conti correnti possono essere congelati, le carte di credito disattivate, i bonifici internazionali bloccati. In teoria persino la figlia, qualora mettesse piede negli Stati Uniti, potrebbe trovarsi di fronte a un rischio di fermo. È l’effetto del circuito bancario globale, che passa quasi sempre dal dollaro e dai sistemi di clearing di New York, rendendo impossibile perfino acquistare un biglietto ferroviario online o pagare un semplice caffè al bar.
Il sistema bancario a cascata
Il meccanismo è spietato nella sua semplicità. Quando il Tesoro Usa inserisce un nominativo nella lista OFAC, ogni istituto bancario collegato al sistema del dollaro – di fatto quasi tutti al mondo – deve uniformarsi per non rischiare sanzioni secondarie. Una banca italiana che volesse mantenere rapporti con Albanese si esporrebbe infatti al pericolo di perdere l’accesso al mercato americano, con conseguenze devastanti. Per questo la risposta degli istituti è di solito l’overcompliance: tagliare ogni legame, sospendere ogni operazione sospetta, chiudere i rapporti. L’America agisce così con un effetto a cascata, che dalle agenzie di Manhattan arriva fino alla filiale di provincia in Europa.
I precedenti che pesano
Il ricordo delle maxi-multe inflitte a colossi come BNP Paribas (8,9 miliardi di dollari nel 2014) o UniCredit (1,3 miliardi nel 2019) ha lasciato un segno profondo nel sistema bancario europeo. Nessun istituto vuole rischiare di compromettere l’accesso al dollaro, valuta che resta centrale nel commercio internazionale e negli scambi finanziari. Perciò, nel caso Albanese, le banche italiane si muovono con estrema prudenza: per loro non è questione di politica estera, ma di sopravvivenza economica e di gestione del rischio reputazionale.
Il silenzio dell’Italia e l’inerzia dell’Europa
Se il sistema bancario reagisce in automatico, ciò che colpisce è il silenzio delle istituzioni politiche. Il governo italiano non ha sollevato la questione con Washington, neppure nei giorni in cui premier e ministri erano a New York per l’Assemblea generale dell’Onu. Roma ha preferito non incrinare i rapporti con l’alleato americano, lasciando di fatto una sua cittadina senza tutela. Anche Bruxelles tace, nonostante l’Ue disponga del cosiddetto blocking statute, nato per proteggere cittadini e imprese europee dall’extraterritorialità delle sanzioni Usa. Uno strumento che però, raramente applicato, resta sulla carta.
Il precedente che interroga il futuro
Mai prima d’ora un relatore Onu era stato colpito da sanzioni. L’episodio apre un fronte nuovo e inquietante: la tutela dei diritti umani rischia di trasformarsi in terreno di scontro economico-finanziario. Il messaggio che arriva da Washington è chiaro: chi mette in discussione i pilastri del sistema può trovarsi escluso da esso, senza bisogno di processi o condanne. È la prova di come il potere economico possa colpire più in profondità della politica tradizionale, arrivando fino al gesto quotidiano – il pagamento di un caffè – che per Francesca Albanese oggi è diventato quasi impossibile.
L’economia delle sanzioni
Il caso Albanese, al di là della persona, è un monito su come l’economia sia ormai un campo di battaglia geopolitico. Il dollaro resta lo strumento principale di pressione: attraverso i flussi finanziari, gli Stati Uniti estendono la loro giurisdizione ben oltre i confini. Per l’Europa, e per l’Italia in particolare, la domanda è se accettare passivamente questa supremazia o costruire strumenti di autonomia finanziaria. Per ora, il caso Albanese mette a nudo una realtà: non solo Roma tace, ma l’intera Unione resta spettatrice, lasciando che un proprio funzionario Onu, cittadina italiana, venga schiacciata da un meccanismo che non risparmia neanche un banale pagamento al bar.