Dal Tg1 all’era digitale, un romanzo televisivo tinto di ironia e partigianeria.
Emilio Fede è morto a 94 anni. Il giornalista, volto storico dell’informazione italiana, si è spento nella Residenza San Felice di Segrate, alle porte di Milano. Le sue condizioni si erano aggravate nelle ultime ore, al termine di una lunga malattia.
Accanto a lui, fino all’ultimo, le figlie Sveva e Simona. Nel tardo pomeriggio il saluto più difficile: Sveva Fede ha annunciato la scomparsa del padre dicendo “Papà ci ha lasciato.” Poche ore prima aveva spiegato ai cronisti: “Tutti voi giornalisti siete con lui e lui è contento.” E, a proposito della diffusione della notizia, aveva aggiunto: “Ci è sembrato bello che ricevesse un ultimo omaggio collettivo dai suoi colleghi.”
Un uomo mediatico e controverso
Nato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1931, Fede entra in Rai nei primi anni Sessanta e si afferma come inviato di razza. Conduce il Tg1 delle 20 dal 1976 al 1981 e ne diventa poi direttore (1981–1983). È in quell’epoca che si consolida la sua cifra: una televisione che mette al centro il racconto emotivo degli eventi, capace di catturare e dividere il pubblico.
Al capezzale le figlie e un saluto pubblico
Gli ultimi giorni sono stati segnati da un crescendo di affetto e riserbo. La famiglia ha chiesto discrezione, ma la notizia del peggioramento è circolata comunque. Il cordone di colleghi e curiosi davanti alla struttura di Segrate ha reso l’addio un momento collettivo, lo specchio di una notorietà trasversale che ha attraversato più generazioni televisive.
Il volto della tv del dolore
Tra gli anni Settanta e Ottanta, la spinta a coprire la cronaca in diretta ridefinisce i confini del telegiornale generalista. La sua narrazione – spesso intensa e partecipata – alimenta consensi e critiche: c’è chi la considera innovazione e chi la bolla come enfasi eccessiva. Su Fede, la tv italiana impara che il notiziario può diventare anche rito serale e teatro nazionale.
Passaggio a Mediaset: Studio Aperto e Tg4
Lasciata la Rai, Fede approda a Fininvest/Mediaset. Lancia Studio Aperto su Italia 1 e, dal 1992, guida il Tg4 per vent’anni. È la stagione del pluralismo televisivo privato, della concorrenza serrata e di un linguaggio che privilegia ritmo, opinione e riconoscibilità del conduttore. Al Tg4, l’allineamento a Silvio Berlusconi diventa parte della sua cifra editoriale: una scelta che gli attira fedeltà tra i sostenitori e accuse di parzialità tra gli avversari.
Tra battute, scandali e stile sopra le righe
Le sue “uscite” in diretta entrano nel lessico pop: resta celebre l’esclamazione “Che figura di m…”, scappata davanti a un fuori onda sfortunato. La carriera incrocia anche inchieste giudiziarie e momenti personali discussi: la narrazione mediatica di Fede, spesso bordeline, contribuisce a fissarlo nell’immaginario come personaggio senza rete, capace di unire ironia e spigolosità.
Satira, imitazioni e persistenza nel costume
La sua figura è oggetto di imitazioni e parodie, segno di un’impronta che supera l’informazione e invade il costume. Il “personaggio Fede” finisce per correre in parallelo all’uomo di redazione: un marchio riconoscibile, imitato dagli artisti e citato nelle conversazioni di bar come nelle aule universitarie che studiano la tv generalista italiana.
Epilogo e bilancio
Con la morte di Fede si chiude un capitolo della nostra televisione. Resta il profilo di un professionista divisivo, che ha portato sul video un’idea identitaria di notiziario: forte, talvolta partigiana, sempre immediatamente riconoscibile. Al di là dei giudizi, il suo percorso – dal Tg1 a Studio Aperto fino al lungo regno al Tg4 – racconta mezzo secolo di tv italiana, le sue metamorfosi, i suoi rischi e il suo fascino.