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Minghiate!

- di: Barbara Leone
 
Che la musica, ma l’arte in generale, stia facendo come il gambero, un passo avanti e tre indietro, non è certo una novità. Da anni, contano quasi esclusivamente solo l’estetica e l’effetto UAO! Arrangiamenti e ritmica si basano su di un click, che non è quello del metronomo ma del computer. La melodia? Roba da paleozoico. Intonazione non pervenuta, tanto c’è l’autotune. Quanto alle costruzioni armoniche, è più facile trovare uno che metta d’accordo destra e sinistra che non uno che sappia cos’è, ad esempio, una quinta diminuita o una settima di dominante. Perché qua di dominante c’è solo l’ignoranza. In mezzo a cotanto chiassoso marasma, vivaddio, c’è pure qualche eccezione. Tant’è che quando questo avviene si grida subito al miracolo, manco si fosse squagliato il sangue di San Gennaro. Col risultato che canzoni discrete diventano capolavori, con tutto il martellante battage pubblicitario che ne consegue. Così è de vi pare, diceva Pirandello. E così, quasi sicuramente, sarà per molto tempo ancora. Nulla di nuovo, dunque. Così come non c’è nulla di nuovo nel constatare che tutti (o quasi) gli artisti di oggi eccedano in bizzarrie per colpire il pubblico. Quando poi il talento latita, praticamente nove volte su dieci, ecco che l’esibizione si trasforma in una vera e propria carnevalata.

Che poi sti ragazzetti fanno pure tenerezza: si sentono tanto fighi e alternativi, e invece sono solo terribilmente scontati e prevedibili. I veri artisti trasgressivi e innovativi sono stati ben altri, e noi boomer abbiamo avuto la fortuna di poterceli vivere tutti. E si chiamavano David Bowie, Freddie Mercury, Elton John, Boy George, Grace Jones, Prince… Ma de che stiamo a parlà? Adesso si vestono tutti da cameriera, infermiera e suora con le giarrettiere. Che fantasia! Non bisogna essere dei geni per capire che si tratta molto banalmente di marketing. Nella fattispecie, di strumentalizzazione della diversità per attirare l’attenzione. Cosa che, evidentemente, con le sette note musicali proprio non gli riesce. Il risultato è che sono proprio credibili, perche non si può tramutare in moda ciò che si è veramente. O che non si è. Questo per dire che, di fondo, il buon Amedeo Minghi non ha detto di certo una boiata nel suo contestatissimo commento all’Eurovision Song Contest. Perché quando dice che è “musica da vedere, non da ascoltare” possiamo dargli torto? Anche no. E però… c’è un però. Perché ogni qual volta una frase inizia con “non sono ma”, c’è un problema. E quasi sempre trattasi di un goffo tentativo di ripulirsi la coscienza da qualcosa che, intimamente, si sa essere negativo. Nel suo dire “non sono bigotto” ma, riferito a Nemo che ha vinto “in gonnella”, Minghi è  l’ennesimo caso che conferma la regola. Perché se mi parli di musica ti seguo e sottoscrivo pure.

Ma se parli in “vannaccese” ti dico alt. Paragonare l’Eurovision a “Sodoma e Gomorra”, parlare di Nemo come di uno “svizzero in gonnella”, far passare il messaggio che sul palco alcuni si siano presentati nudi, laddove si trattava di un effetto ottico perché i “gioielli” erano coperti anche se sembrava di no, ebbene scadere così di livello da uno che pretende d’esser chiamato Maestro perché si crede lo Chopin della musica pop italiana è veramente ma veramente triste. Tanto più che stiamo parlando di un artista che ha 76 anni suonati e che, per la cronaca, fino a poco tempo fa si presentava sul palco coi capelli ossigenati e la coda di cavallo. Un po’ di contegno no eh? Chiamasi stile. Così come è una caduta di stile l’attacco ad Angelina Mango. E premetto: la sua canzone non mi piace per niente. Ma che un vecchio bacucco si metta a criticare una ragazza di 23 anni, oltretutto figlia di un collega morto sul palco e che aveva una delle più belle voci del nostro panorama musicale (niente di paragonabile a Minghi, bravo nella scrittura ma completamente sfiatato al confronto con l’indimenticabile Pino Mango), bè… dire che è di cattivo gusto è un eufemismo. Anzi: sa proprio di vecchio rosicone che a Sanremo il massimo che ha fatto è stato il terzo posto con Mietta.

Ma poi: parla lui di noia? Uno che ha fatto della lentezza un’arte spietata ed estenuante e che ci ha frantumato gli zebedei con “magari ti chiamerò trottolino amoroso dudùdadadà”. Poi sì, ha scritto canzoni bellissime: 1950, La vita mia, Un uomo venuto da lontano e qualche  altra ancora. Ma, diciamo la verità: nulla di memorabile. Tant’è che il grande pubblico lo ricorda soprattutto per il trottolino amoroso e il suo codino. Poi veramente: sentire un artista che critica così aspramente e a presa per il culo una collega per di più tanto giovane fa proprio male al cuore. Perché romanticamente penso, e penserò sempre, che l’arte debba unire. Non bastano i cavernicoli del web? Ci si mette anche un “Maestro” ad avvalorare questa orribile tendenza di sparare cattiverie senza pietà? Minghi ha avuto sicuramente una gran bella carriera, ha scritto belle canzoni e ha avuto il meritato successo. A ‘na certa ci si può anche arrendere alla pensione. E soprattutto dire le cose con meno acrimonia. E dire che faceva il Papa Boy, alla faccia della bontà. Ora è passato ai Giorgia Boys con la scusa del presidenzialismo. Che più che altro, nel caso di Minghi, è voglia di presenzialismo. Ci si arrangia come si può pur di non appendere il microfono al chiodo.
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