La Smemo è fallita. E con lei forse anche la nostra generazione
- di: Barbara Leone
Il testo di una canzone di Madonna ritagliato da “Tv sorrisi e canzoni”, due schede telefoniche della Sip da cinquemila lire, il biglietto del primo concerto di Baglioni, le frasi di Jim Morrison e quelle del Corvo che non poteva piovere per sempre, e infatti ormai non piove quasi più. E ancora: la foto di Nick Kamen sulla pagina del 5 marzo, una di Luis Miguel al 15 settembre e quella di Dylan di Beverly Hills il primo dicembre. E poi quella dilaniante confessione di un amore eterno durato solo cinque giorni, incastonata tra i compiti di greco e quelli di filosofia al 16 di aprile. E poi lettere, cartoline, dediche, carte stropicciate di una Brooklyn… proprio lei, la gomma del ponte. E mozziconi di sigarette, braccialetti di filo spezzato, adesivi, disegni e cuori come se non ci fosse un domani, citazioni copiate da “Cioè”, i TVTB alla migliore amica, la strizza per l’interrogazione di matematica, le promesse indissolubili incorniciate con l’Uniposca dorato, i sogni, le paure, la solitudine tua e della Pausini perché tutte abbiamo avuto un Marco che se n’è andato via, i desideri segreti, le inquietudini, la voglia di cambiare questo fottutissimo mondo… E su tutto l’attesissima, fatidica frase: INIZIOVACANZE. Era tutto lì: nella nostra Smemoranda, che pesava cinque chili per tutta la roba che conteneva dentro. Non un semplice diario, ma un manuale esistenziale per capire la vita a tastoni. Perché la Smemoranda, anzi la Smemo, per noi era proprio questo: la mappa dei nostri arzigogolati pensieri, un compattatore d’emozioni che da impalpabili prendevano forma grazie alla Bic con la punta grossa. Era la borsa di Mary Poppins di noi teenager anni Ottanta, era internet quando internet non era proprio nell’etere. Pagine di carta che forse anticipavano con la voglia di fissare, raccontare, conservare le attuali bacheche social. Anche se, a ben pensarci, quello era un racconto tutto nostro, intimo e privatissimo, lontano anni luce dall’ostentazione molesta e pacchiana delle pagine social di oggi.
Tutto questo mondo m’è apparso all’improvviso pochi giorni fa, quando in un trafiletto in venticinquesima pagina di un giornale ho letto che la società che produce Smemoranda è fallito. Puff, tutto svanito. Nessuno ha voluto rilevare il marchio. E così con la Smemo se ne va un altro pezzettino, l’ennesimo, di noi ragazzi degli anni Ottanta. Quelli dello zaino Invicta, delle Timberland, delle camicie Naj Oleari e degli Swatch. Quelli di “Bim Bum Bam” e dei “Ragazzi del muretto”, quelli della Girella e delle pennette alla vodka. Quelli della leggerezza, dei colori e del basta sensi di colpa. Quelli delle lire, e che con diecimila lire ci facevi serata, pizza, bibita e ti restava pure qualcosa per il giorno dopo. Quelli degli anni che sembravano ricchi, e che invece impoverivano proprio il nostro di futuro a suon di rate e soldi che non valevano niente. E però non lo sapevamo che i grandi ci stavano ipotecando il domani buttandoci fumo negli occhi travestito da Moncler, mangiandosi tutto e soprattutto occultando magistralmente i problemi per poi scaricarceli sulle spalle. Che poi, infondo, è esattamente quello che facciamo noi oggi. Ecco perché, forse, il fallimento di Smemoranda segna un po’ il fallimento anche della nostra generazione. Potevamo fare di più, molto di più. E invece abbiamo scritto pagine e pagine sulle nostre Smemo senza muovere un dito. E’ proprio vero: questo Paese morirà seguendo la filosofia del Gattopardo: tutto cambia perché nulla cambi.