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GF Vip, Alfonso (Signorini): è tanto liberatorio

- di: Barbara Bizzarri
 
Dentro il GF ci si sente come in quel famoso passo di Houellebecq, “lo scopo della festa è di farci dimenticare che siamo solitari, miserabili e destinati a morire. In altre parole, di trasformarci in animali”. Lunedì sera abbiamo scoperto, con grande sorpresa (di chi?), cosa è capace di fare il branco a chi si raccomanda allo stesso per non essere divorato: lo si divora con ancora più gusto. Marco Bellavia, star anni Ottanta e in parte pure Novanta, entra nella casa di carta e dice senza troppi preamboli, sto male ma con il vostro aiuto posso farcela. Il gruppo subodora scippo di vittoria: frignando frignando questo potrebbe vincere, è il fumetto che passa sui mazzi di teste degli inquilini, ergo non sia mai, meglio farlo fuori subito. Da lì si apre il vaso di Pandora e non resta neppure la speranza: l’abisso dei residuati famosi si rivela in tutta la pochezza di chi quando parla di solidarietà agisce per frasi fatte senza sapere il significato di quello che dice, buttando qua e là parole talmente fasulle che si confondono con la scenografia, e quando giunge l’ora di dimostrare cosa abbiano effettivamente imparato da tutte le angherie che raccontano di aver subìto per sollecitare, loro sì, l’empatia altrui al grido sottaciuto di “fatemi tornare in tv”, insomma,  allo scoccare fatidico del hic Rhodus, hic salta, lo fanno: però in faccia al malcapitato. 

Morale: Bellavia, terrorizzato, scappa e fa male perché avrebbe vinto a mani basse, gli altri vengono richiamati all’ordine. La foto che ritrae i quattro bulli televisivi in attesa del verdetto del televoto flash è meravigliosa, uno spaccato di giustizia divina, dato che loro non hanno davvero nessuna scusa, men che mai clinica, per essere così come sono. Come ha detto la Ventura nazionale, si sono fatti riconoscere, e non è un bene dato che hanno dimostrato il materiale inconsistente che li compone e il timore palpabile di tornare in quel cono d’ombra che spaventa soprattutto chi sotto i riflettori ci è già stato, almeno per un po’.

In tutto ciò spicca la figura di Alfonso Signorini, il direttore della baracca che sa, per averlo vissuto, cosa significhi essere bullizzati: le cicatrici, se si formano, restano a vita. Quindi, si barcamena tra Jung e i singhiozzi disperati della Lamborghini che mica ha pianto così per i dissapori con la sorella, e cerca di rintuzzare la cantilena bavosa a voci unificate del non volevo non sapevo. Però, quando arriva Ciacci, ormai noto come Barbablù, e inizia anche lui il peana del non avevo capito, ho ignorato Bellavia rantolante sul pavimento perché mi ha nominato, e tutto l’armamentario da asilo mariuccia in dotazione ai poveri di spirito, Signorini butta alle ortiche il suo equidistante aplomb da ex professore di lettere e dice, gaudio e tripudio, la cosa più giusta, quella che aspettavamo da ore, l’unica che andava detta a ognuno fin dall’inizio: ”Non dire cazzate!”. Finalmente, dopo una lunghissima attesa, l’ora della verità: grazie, Alfonso, che sollievo.
 
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