"S'è l'è cercata", violenza sessuale e opinione pubblica

- di: Susanna Mantioni
 

«Quelle due sceme l’hanno fatto apposta, però anche i due carabinieri come hanno fatto a farsi incantare così da due oche? Così adesso perdono il lavoro e quello sposato la famiglia…».

«Chiaro che i carabinieri siano stati parecchio stupidi ma, si sa, sono uomini! Parlare di stupro mi sembra eccessivo! Il comportamento delle due non è stato certo da santarelline!».

«Vabbè, io dico la mia: forse una, forse entrambe “ci sono state”, forse corroborate da sostanze (…). I carabinieri si son fatti fregare, le pulsioni sono quelle che sono, trapassano anche le divise avvolte a corpi di ‘masculi’ che non sono di legno e il cervello ha seguito l’ordine che gli dava l’organo riproduttivo senza pensare alle conseguenze (…)”.

Sono solo alcuni dei commenti rintracciabili in rete (nello specifico, tra le pagine on line di un diffuso quotidiano nazionale) in riferimento al recente presunto stupro ai danni di due studentesse americane, avvenuto a Firenze nella notte fra il 6 e il 7 settembre scorso. Uno dei tanti casi di violenza sessuale che quest’estate hanno riempito le pagine di cronaca.

A leggere tali considerazioni, un elemento balza subito agli occhi: la pressoché completa mancanza di empatia nei confronti delle vittime, o presunte tali, che anzi vengono additate, nel migliore dei casi, come corresponsabili dell’accaduto.

Questo atteggiamento ostile nei confronti della parte lesa in una violenza sessuale ha radici profonde. Del resto, lo stupro, in quanto forma di violenza specifica, ha una sua storia culturale, che in Italia trova il suo spartiacque nella vicenda di Franca Viola, prima donna a rifiutare nel 1966 un matrimonio riparatore in seguito ad un abuso sessuale.

Per comprendere meglio l’atteggiamento culturale cosiddetto victim blaming, ossia tendente a mettere sotto processo la vittima, è utile ricordare che solo nel 1996 la legislazione italiana classificò la violenza carnale come reato contro la persona. Fino ad allora essa era infatti un reato contro la pubblica morale.

La sub-cultura solidale con lo stupro si è nutrita per secoli di miti e di pregiudizi volti a spostare l’attenzione dall’aggressore all’aggredito. Sminuire le responsabilità del carnefice, giustificare, assecondare, minimizzare sono procedimenti logici direttamente proporzionali alla colpevolizzazione della vittima. E si badi bene: il senso di colpa è un sentimento con cui ogni persona – uomo o donna che sia – deve fare i conti in caso di violenza sessuale.

Lo ha spiegato perfettamente al “The Guardian” – con un misto di ironia e leggerezza – Sheeva Weil, una giovane donna vittima di violenza sessuale: «I miei amici vi diranno che amo ballare, spendo troppo per il cibo e non riesco a staccarmi dall’iPhone. Quello che probabilmente non vi diranno è che sono stata stuprata al primo anno di Università. Questo perché quasi nessuno lo sa (…). Ci sono voluti quasi quattro anni, una diagnosi di “sindrome da stress post-traumatico” e tre diversi analisti prima che potessi dire con convinzione che non ho colpe per quanto è accaduto quella notte. Una delle cose più difficili da affrontare è che non sono scappata urlando e non ho cercato di combattere contro il mio aggressore. Gli ho detto chiaramente che non volevo avere un rapporto sessuale. Ma quando ci spiegano cos’è la risposta “combatti-o-fuggi”, dimenticano sempre di citare la terza reazione fisiologica possibile: la paralisi. Si chiama “immobilità tonica” ed è un fenomeno incontrollabile. È perfettamente sensato: il tuo cervello calcola i rischi e decide che far finta di essere morta è la scelta più sicura. (…) Avrei voluto saperlo quando mi sentivo in colpa per non aver fermato il mio assalitore».

Perché l’opinione pubblica sente spesso la necessità di ‘pretendere’ dalle vittime di stupro carichi probatori pesantissimi? La resistenza fisica all’aggressore è senz’altro fra questi. Non è lontano nel tempo il caso di una giudice, Carmen Molina, che nell’interrogare una giovane spagnola che aveva denunciato il proprio compagno per abusi sessuali, chiese: «Hai provato a chiudere le gambe in maniera corretta?». Ma c’è di più: oltre a dimostrare di essere capitolata per una evidente sproporzione in quanto a forza fisica, per evitare ciò che in gergo tecnico si chiama slut shaming, la vittima di violenza sessuale è chiamata a provare di aver avuto una vita sessuale se non irreprensibile, quantomeno non promiscua e tendenzialmente casta. E qui veniamo ad un punto dirimente della questione: la repressione fisica delle donne, come ha spiegato Susan Brownmiller, autorevole femminista americana, si è storicamente configurata anche mediante «un processo consapevole d’intimidazione, d’istillazione del senso di colpa e della paura».

Rivelare la contraddittorietà delle credenze su cui si fonda la sub-cultura solidale con lo stupro è conditio sine qua non per smascherare gli atteggiamenti colpevolisti verso le vittime di violenza. Ci aveva provato già Tina Lagostena Bassi nel 1978, quando nel procedimento penale che fu poi raccontato nel documentario “Processo per stupro”, arringava: «Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali da difendere, ebbene nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, (…) di dire ai rapinatori: “Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!”».

Molte delle attiviste impegnate nel dibattito pubblico sullo stupro hanno sottolineato poi come aggressione e protezione delle donne siano due facce della stessa medaglia: l’atteggiamento paternalistico che vorrebbe sacrificare la libertà femminile sull’altare della sicurezza non fa che accrescere il senso di colpa delle potenziali vittime. Come dire: taluni comportamenti incauti delle donne sono concausa della violenza subita. Meglio allora allungare la gonna, evitare passeggiate notturne, astenersi dal bere troppo. Certo, va insegnato soprattutto alle più giovani a non esporsi a rischi inutili, ma il principio dell’autodeterminazione corporea delle donne deve essere inviolabile, ad ogni livello.

Perciò non bastano le leggi, che pure sono indispensabili, come quella contro la violenza di genere approvata dal Consiglio regionale del Lazio il 5 marzo 2014 e che ha previsto, fra l’altro, l’apertura di 25 nuove strutture di accoglienza per le vittime.

Il problema è culturale. Avremmo bisogno, oggi come non mai, di diffondere nelle scuole corsi di educazione all’affettività, in cui i giovani uomini possano confrontarsi in modo aperto al cambiamento che ha investito l’identità femminile negli ultimi quarant’anni.

Immanuel Kant descriveva l’Illuminismo come l’uscita per l’uomo dallo stato di minorità: mi chiedo se non sia arrivato il momento di inaugurare una nuova fase, di ‘Illuminismo al femminile’, per uscire dallo stato di tutela, protezione e possesso, in cui qualche uomo vorrebbe ancora tenere le “proprie” donne.

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