Ucraina: la strana ricetta di Draghi per la vittoria, portare l'Ue ai confini con la Russia
- di: Redazione
''D'' come Draghi, ''D'' come Delfi (nel senso di oracolo): oramai tutto quello che dice l'ex presidente della Bce e del nostro consiglio dei Ministri, visto il suo profilo, viene preso come oro colato, come una verità incontrovertibile, come una comunicazione a senso unico (cioè che, quando arriva, devi accettarla senza profferire verbo).
In alcuni campi è sicuramente così. In altri non sempre o, se più aggrada, non necessariamente, perché anche Mario Draghi, da essere umano, è fallibile, può sbagliare, nell'interpretare e analizzare. Senza volergli mancare di rispetto, è il caso delle sue parole sulla guerra che abbiamo sull'uscio di casa, dopo l'invasione russa dell'Ucraina e che vede l'Occidente difendere quasi compattamente le ragioni di Kiev.
Cos'è che ha detto Draghi, parlando nel prestigioso scenario del Massachusetts Institute of Technology? Che l'Ucraina, e con essa l'Occidente, quindi anche noi, non ha alternativa alla vittoria, perché non può soccombere davanti all'aggressione di Mosca, neanche sotto forma di un ''pareggio confuso''. Che poi, a pensarci bene, dovrebbe essere una pace in cui i duellanti accettano di abbassare le proprie ambizioni, pur di raggiungere un cessate il fuoco vero, quindi definitivo.
Ucraina: la strana ricetta di Draghi per la vittoria, portare l'Ue ai confini con la Russia
Questo perché, ha detto Draghi, alla vittoria ucraina non c'è alternativa, per il semplice motivo che se dovesse prevalere Mosca si determinerebbe una situazione che ''indebolirebbe fatalmente altri Stati confinanti''. Quindi ''segnalerebbe inoltre ai nostri partner orientali che il nostro impegno per la loro libertà e indipendenza – un pilastro della nostra politica estera – non è poi così incrollabile".
Invece, per Mario Draghi, una vittoria di Kiev sarebbe tale anche per l’Europa, che davanti a questa guerra ha dimostrato unità ''nella difesa dei suoi valori fondanti, andando oltre le priorità nazionali dei singoli Paesi. Questa unità sarà cruciale negli anni a venire". Quindi, per perfezionare questo cammino, bisogna allargare i confini dell'Unione mettendo dentro, oltre all'Ucraina, anche i Paesi balcanici e dell'Europa orientale.
Bello, bellissimo, tutti in piedi, applausi, hip hip hurrà, stelle filanti e fuochi d'artificio.
Però il discorso di Draghi al Mit sembra non tenere conto di alcuni piccoli elementi che, con il massimo rispetto per quel che è stato ed è ancora oggi, ci permettiamo di porre alla sua attenzione.
Una guerra, qualsiasi guerra, ma questa in particolare, se non si risolve nelle prime settimane (come insegna la storia delle varie blitzkrieg, che combinavano velocità, impiego massiccio di truppe e obiettivi ben definiti), rischia di durare molto di più rispetto a quanto previsto e sperato dagli attaccanti. L'idea dei russi di arrivare a bordo dei loro carrarmati nel centro di Kiev per fare colazione, alla faccia di Zelensky, si è dimostrata un errore, oltre che profondamente sbagliata, basandosi sul concetto che la loro forza militare non avrebbe trovato ostacoli. Così non è stato e di una Ucraina invasa ormai parliamo da oltre un anno, con la prospettiva di continuare a farlo chissà per quanto tempo ancora.
Fatto salvo il diritto dei Paesi a difendere la propria sovranità, anche a costo di pesantissime perdite umane, lo scenario che si è delineato in Ucraina è quello di uno stallo prolungato, che però non fa tacere le armi, come riferiscono i quotidiani bollettini di guerra, ai quali bisogna necessariamente fare la tara della propaganda. Quello che però sembra fuori focus, nel ragionamento di Draghi, è pensare che la Russia accetterà supinamente prima di perdere questa guerra (il bombardamento della diga di Nova Khakokva qualcosa dovrebbe pure avere insegnato) e quindi di vedere che i confini di quell'Europa che Mosca ha ormai in odio possano essere, a est, quelli della Russia.
Invece che fare smettere la guerra, con la sconfitta russa, si correrebbe il rischio di cronicizzarla, come una partita di scacchi destinata a finire in patta, ma di cui nessuno vuole assumersi la responsabilità.
Allargare l'Unione europea ad est sarebbe il classico drappo rosso davanti agli occhi di Vladimir Putin che questa guerra la deve vincere. Innanzitutto perché. in caso contrario, perderebbe la faccia davanti ai suoi concittadini, dopo avere costretto migliaia di coscritti, provenienti dalle regioni più povere, ad andare a combattere e morire senza il necessario addestramento e senza capire bene per quale motivo. Poi andrebbe a rinvigorire le ambizioni di chi, accusandolo di avventurismo seguito dalla sottovalutazione dei rischi, si candida a succedergli alla guida di una Russia più muscolare nel confronto con i ''nemici'', da scegliere di volta in volta.
Infine Putin non può certo pensare che una sconfitta o anche una brutta pace non provochino la reazione di quegli oligarchi che, dopo essersi ingozzati di denaro grazie alla benevolenza dello zar, ora si vedono costretti a rivedere i loro programmi da una economia che era prima senza regole e oggi è di guerra. E quando un dittatore o autocrate (quanto sottile è la differenza) si trova con le spalle al muro, nessuna reazione può essere esclusa.
Mentre il counter dei morti e delle distruzioni corre inesorabile, di tutto il mondo ha bisogno meno che dei tamburi di guerra di Mario Draghi.
Perché una pace che non accontenti nessuno è sempre meglio di una vittoria che spiana la strada alla vendetta. Se non si crede a questa frase scontata, andare a parlare con le madri, russe e ucraine, che piangono i loro ragazzi.