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Washington, la Casa Bianca rimuove la commissione di belle arti

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Washington, la Casa Bianca rimuove la commissione di belle arti

La notifica è arrivata come un congedo in tre righe: i componenti della Commission of Fine Arts, l’organo che per oltre un secolo ha vigilato sull’estetica monumentale federale, vengono rimossi “con effetto immediato”. I membri, architetti e storici dell’arte nominati in epoche diverse, non avevano nascosto il proprio dissenso verso la linea che la Casa Bianca sta imprimendo al volto urbanistico della capitale. Ora il presidente Trump chiude il cerchio: niente consulenza, nessun contrappeso, via libera al progetto di trasformazione simbolica degli spazi iconici di Washington.

Washington, la Casa Bianca rimuove la commissione di belle arti

Dietro la scelta c’è un processo già iniziato: la demolizione della East Wing per far posto a una grande “ballroom”, un salone cerimoniale modellato su esempi ottocenteschi, pensato per eventi pubblici e parate interne. Un cantiere che modifica la geografia stessa della residenza presidenziale, spostando verso una scenografia di rappresentanza ciò che finora era infrastruttura funzionale. Nelle carte preliminari circola l’idea di un ampliamento che richiami le grandi architetture celebrative della stagione pre-bellica. L’impronta è chiara: monumentalismo come messaggio, architettura come dichiarazione di potere.

L’ombra dell’“arco di trionfo”
Nel distretto diplomatico, un’altra voce corre da settimane: un “arco di trionfo” d’ingresso sull’asse che guarda ad Arlington, il cimitero militare simbolo dei caduti. Non esistono bozze ufficiali depositate, ma i mediatori culturali che hanno lavorato nei corridoi del National Mall raccontano di consultazioni informali e studi di fattibilità affidati a consulenti vicini alla cerchia presidenziale. L’idea, per i sostenitori, è restituire monumentalità al centro del potere. Per i critici, è una torsione simbolica che piega lo spazio pubblico a una estetica di autocelebrazione permanente.

Lo scontro con la tradizione
La Commission of Fine Arts, dalla quale il presidente Trump ha ora preteso lo “svuotamento”, è nata per evitare che l’architettura federale diventasse oggetto di propaganda. Dal Lincoln Memorial al progetto del Kennedy Center, l’istituzione aveva sempre difeso una grammatica civica: grandezza, sì, ma come espressione di memoria collettiva, non come scena personale. La rimozione è quindi uno spartiacque. Cambia il rapporto con il passato e cambia il modo in cui viene presentato il potere agli occhi dei cittadini e dei visitatori.

La cornice politica
Al cambio di passo urbanistico si accompagna la dichiarazione più esplicita resa dal presidente Trump nelle ultime ore: «Non posso fare un terzo mandato», ha detto, confermando i limiti costituzionali pur continuando a evocare l’idea di un mandato “più lungo” nella retorica di comizio. La tensione sta tutta qui: non potendo prolungare istituzionalmente la sua permanenza, il presidente punta a lasciarne l’impronta fisica. Se non la continuità del potere, almeno la continuità del paesaggio.

Cosa resta ora ai mediatori culturali
Senza la commissione, vengono meno le valvole istituzionali in grado di correggere gli eccessi. Restano i ministeri tecnici, ma sono filtri amministrativi, non culturali. L’estetica diventa progetto politico diretto. I diplomatici europei che lavorano a Washington lo definiscono “un passaggio di fase”: l’architettura come messaggio geopolitico, non più solo domestico. È un riassetto della capitale che vuole parlare al mondo prima che ai cittadini. E mentre le gru continuano a operare attorno alla Casa Bianca, la sensazione è che il discorso architettonico sia già parte della campagna permanente: una narrazione che intreccia identità, memoria e potere. Il centro del potere americano, per come lo si conosce oggi, è entrato nel suo restyling più politico degli ultimi decenni.

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