In Italia le mamme fanno le “equilibriste”: il report di Save the children redatto in occasione della festa della mamma

- di: Barbara Leone
 
Mamme e lavoro: un binomio spesso impossibile. Soprattutto al sud. E’ questa, in estrema sintesi, la fotografia che emerge dal report “Le equilibriste - La maternità in Italia”, redatto da Save the children in occasione della festa della mamma. L’indagine parte dagli allarmanti, e noti, dati demografici del 2022 nel corso del quale è stato raggiunto il nuovo record minimo di nascite, che scendono per la prima volta sotto le quattrocentomila, coi 392.598 bambini e bambine iscritti in anagrafe nel nostro Paese. La bassa fecondità nel nostro Paese, sottolinea Save the children, è frutto di molte dinamiche, acuite dalla recente pandemia che, ridotti i suoi effetti sulla salute della popolazione, continua ad avere un peso sulla situazione economica e sulla visione del futuro da parte delle coppie, rendendo difficile la pianificazione della genitorialità. Ed è in questo quadro che s’inseriscono quelle che l’associazione definisce non a caso “equilibriste”, divise come sono tra il loro dentro e fuori dalle mura domestiche.

In Italia le mamme fanno le “equilibriste”: il report di Save the children redatto in occasione della festa della mamma

Il risultato è che guardando al tasso di inattività dei soggetti con figli minori le percentuali degli uomini sono del 5,3%, mentre le madri di minorenni hanno un tasso di inattività del 34,7%. Va ancora peggio al sud, dove una donna con figli minori su due (il 52,7%) non lavora né cerca lavoro. Per le madri, più che per le altre donne, si pone insomma il tema della conciliazione tra lavoro e organizzazione familiare. Un indicatore importante in questo senso è, riferisce Save the children, il rapporto tra tasso di occupazione delle donne di 25- 49 anni con figli in età scolare e donne nella stessa fascia d’età e senza figli: nel 2021 questo rapporto è del 73%, ovvero per ogni 100 donne senza figli occupate ce ne sono 73 con figli in età scolare occupate42. Anche in questo caso il livello di istruzione gioca un ruolo importante: l’indicatore è pari al 93% per le donne con istruzione terziaria (in crescita del 3,1% rispetto al 2020), del 71%, e in calo, per le donne con diploma di scuola secondaria di secondo grado, mentre scende al di sotto del 50% (48,7%) per chi ha licenza media o titolo di studio inferiore. Ciò conferma che avere figli è particolarmente penalizzante per la partecipazione al mondo del lavoro per le donne con un titolo di istruzione inferiore. Anche nel 2022, riferisce il report, è evidente la disparità nella occupazione per genere e a seconda della presenza o meno di almeno un figlio (minore) nel nucleo familiare. Per gli uomini di età compresa tra i 25 e i 54 anni il tasso di occupazione totale è dell’82,7%, e varia dal 76,1% dei senza figli, crescendo a 90,4% per chi ha un figlio minore, e al 90,8% per chi ne ha due.

Per le donne la dinamica è inversa
: il tasso di occupazione totale è più basso, 62%, con il picco massimo (67%) tra le donne senza figli, e il picco minimo 56,1% tra quelle con due figli minori. Nel mezzo le donne con un figlio minore al 63%. Confrontando i tassi di occupazione delle madri con quelli dei padri emerge un quadro netto dei meccanismi sottostanti la partecipazione al mercato del lavoro: se per le madri avere figli riduce il tempo e l’energia da dedicare al lavoro, per gli uomini invece aumenta la motivazione o la necessità di provvedere alla famiglia. Poiché lo sforzo lavorativo dei padri ne aumenta la produttività, la paternità può aumentare i guadagni degli uomini anche se passano la stessa quantità di tempo al lavoro che passavano prima di avere un figlio. Visto l’obiettivo, poi, per loro è maggiore la propensione a scegliere luoghi di lavoro più lontani da casa in cambio di stipendi maggiori. La paternità, infine, sarebbe un segnale anche per i datori di lavoro: così come ci sarebbe una discriminazione negativa nei confronti delle madri, in direzione opposta andrebbe quella nei confronti dei padri, sui quali ricade lo stigma positivo dell’alta produttività e del bisogno di provvedere alla famiglia.

Ancora una volta però occorre guardare sia alle aree geografiche, sia al titolo di studio per avere un quadro approfondito. Guardando all’occupazione maschile e femminile, per la fascia tra 25 e 54 anni, al Mezzogiorno, ad esempio, si vede che il divario nella partecipazione si manifesta diversamente: gli uomini senza figli hanno un tasso di occupazione del 60,1%, quelli con figli minori dell’81,2%. Per quanto riguarda le donne, l’occupazione si ferma al 46,4% per chi è senza figli e cala al 39,7% in caso di presenza di figli minori (38,1% è la partecipazione minima che si riscontra per le donne con due o più figli minori). Al Nord, invece, per gli uomini senza figli la partecipazione si attesta all’86,3%, salendo al 96,1% per chi ha figli minori, mentre la riduzione è dal 78,9% delle donne senza figli, al 71,5% delle madri con figli minori (66,8% è il minimo per le donne con due o più figli minori). Nelle Regioni del Centro gli uomini senza figli hanno un tasso di occupazione del 78,7% e con figli minori del 94%, mentre le donne occupate sono il 71,8% se senza figli e il 67,1% se con figli minori. È da notare che mentre il lavoro maschile aumenta al Sud di più di venti punti percentuali per gli uomini che hanno/non hanno figli, al Nord aumenta di dieci, partendo da soglie decisamente più alte. Il divario femminile tra le madri di figli minorenni e le non madri è invariato, di circa 7 punti percentuali sia al Nord, sia al Sud, e leggermente inferiore al Centro.

Guardando al divario nell’occupazione a seconda del titolo di studio e presenza di figli minori, chiaramente i risultati vanno nella direzione già delineata, con uno svantaggio per uomini e donne meno istruiti rispetto a chi ha istruzione terziaria, e particolarmente acuito per le donne con figli. Il tasso di occupazione degli uomini con licenza media è del 67,2% se non hanno figli, cresce fino all’83,7% per gli uomini con figli minori. Per le donne il tasso di occupazione già estremamente basso (47,2%) si riduce ulteriormente fino al 37,4% per quante hanno figli minori. Tra chi ha il diploma, l’occupazione degli uomini senza figli è al 79,3%, crescente fino al 93,8% per chi ha figli minori, percentuali che scendono al 67,5% e al 60,8% per le donne. La distanza tra uomini e donne laureate e senza figli si abbassa: per gli uomini l’occupazione è dell’81,8%, mentre per le donne del 77,8%, ma rimane ampio, nonostante i picchi nell’occupazione, quando ci sono figli minori: 97,5%, quindi quasi totale la partecipazione maschile, massima tra le donne e all’83,2%. Nella stessa direzione, riferisce ancora il report di Save the children, vanno i dati relativi alla disoccupazione. In generale tra gli uomini di età compresa tra i 25 e i 54 anni senza figli la disoccupazione è pari all’8,9%, mentre scende al 4,3% per chi ha figli minori. Raggiunge il suo massimo tra i più giovani, tra i 25 e i 34 anni, sia tra chi ha figli (6,5%), ma soprattutto tra chi non ne ha (10,5%). Per le donne tra i 25 e i 54 anni senza figli la percentuale è di poco dissimile ai coetanei maschi (11%), mentre tra le donne con figli minori è quasi doppia rispetto a quella degli uomini con i figli minori (8,5%): anche in questo caso le sfavorite sono le donne più giovani (13,5%). Particolarmente alto il tasso di disoccupazione per le 25-34enni con due figli minori che tocca il 18,4%.

Un aspetto interessante riguarda la minor disoccupazione delle donne con un figlio minore rispetto alle donne senza figli: questo dato sembra confermare che per avere un figlio in Italia è importante che a lavorare siano entrambi i partner. Anche la disoccupazione mostra ampie divergenze tra aree geografiche, laddove il tasso di disoccupazione è minimo al Nord, tra chi è senza figli, del 4,9% per gli uomini e del 6,8% per le donne; mentre tra chi ha figli minorenni dell’1,8% per gli uomini, quindi estremamente bassa, contro il 5,5% per le donne, e massimo nel Mezzogiorno, tra chi è senza figli: 17,1% per gli uomini, 21,2% per le donne; con figli minorenni: 8,7% per gli uomini, contro 15,9% per le donne. Ulteriori analisi mostrano che, anche in questo caso, sono le giovani donne del Sud ad essere maggiormente colpite dalla disoccupazione che, mentre per gli uomini dell’area meridionale raggiunge tra i 25-34enni un picco massimo del 19% tra chi non ha figli e del 13,9% tra chi ha figli, per le donne arriva a quota 26,6% tra le senza figli e al 24,2% tra chi ha figli. Anche guardando al livello di istruzione il report non mostra sorprese: al crescere del livello di istruzione cala il tasso di disoccupazione. È massimo tra chi ha licenza media o titolo di studio inferiore: 13,7% per gli uomini senza figli, 19% per le donne senza figli; 7,7% per gli uomini con figli minorenni, contro 16,4% per le donne con figli minorenni. Ed è minimo tra chi ha una laurea: 5,3% e 6,9% per gli uomini e le donne senza figli; ancor più bassi (1,1% e 3,3%) per uomini e donne con figli minorenni.

Il divario tra chi ha e chi non ha figli è più ampio per gli uomini che per le donne, con l’avere figli che diventa particolarmente protettivo per gli uomini anche in caso di bassa istruzione. Soprattutto per gli uomini laureati, ma anche per le donne, la disoccupazione è a livelli estremamente bassi quando ci sono figli minori. Le donne con titoli di studio inferiori sono le più a rischio di disoccupazione, anche quando hanno figli. Non sorprende, ma fa sempre riflettere, il fatto che i tassi di inattività siano superiori rispetto ai tassi di disoccupazione, cioè che le persone fuori dal mercato del lavoro siano di più delle persone che cercano lavoro ma non lo trovano, e seguano essenzialmente la stessa direzione in termini di distribuzione geografica e per livello di istruzione. In generale, tra gli uomini senza figli di età compresa tra i 25 e i 54 anni l’inattività caratterizza il 16,4% della popolazione, per le donne il 24,8%. In presenza di figli le percentuali si distanziano notevolmente: solo il 5,3% dei padri con figli minori è inattivo, mentre è ancora diffusa l’inattività delle donne con figli che caratterizza il 34,7% delle madri di minori. Da segnalare è che una donna su due (52,7%) con figli minori residenti al Sud è inattiva, a mostrare un modello familiare basato sulla divisione tradizionale dei ruoli ancora molto radicato e presente specialmente tra le donne giovani (25- 34 anni) tra cui non lavora e non cerca lavoro il 63,5% delle donne con almeno un figlio minore, quasi due donne su tre. L’INAPP, a commento dei dati sull’inattività, associa una riflessione sul carico di cura: l’inattività femminile è prevalentemente dovuta alla gestione della famiglia (35%), mentre lo è in maniera solo marginale per i padri (3%). Quando si decompone questo dato in base all’età, è interessante vedere come, se per la classe d’età 15-24, uomini e donne condividono in pari percentuali la motivazione legata alla formazione e allo studio, già nella classe d’età seguente (25-34 anni), quella in cui di fatto hanno prevalentemente luogo le nuove nascite, lo sbilanciamento si fa importante, con il 45,2% delle donne che attribuisce la causa della propria inattività alle responsabilità di cura, contro il 3,9% degli uomini. Gli ultimi dati disponibili sul totale degli uomini e delle donne in età lavorativa (15-64 anni) che non sono attivi nel quarto trimestre 2022 riportano che su quasi 8 milioni di donne inattive, ben 2 milioni 700 mila indicano “motivi familiari” nella motivazione della mancata partecipazione a fronte di soli 128 mila uomini.

L’ultima componente da analizzare è quella relativa al tempo di lavoro. Mentre il lavoro a tempo pieno è più diffuso tra gli uomini che tra le donne, per il tempo parziale avviene il contrario. In generale in Italia il 93% degli uomini che lavorano lavora a tempo pieno contro il 68% delle donne, mentre, di conseguenza, solo il 7% degli uomini lavora a tempo parziale, contro il 32% delle donne. Per la metà delle donne che lavorano a tempo parziale (16,4%) si tratta di part-time involontario. La percentuale delle donne a tempo parziale aumenta drasticamente tra chi ha figli (37,3%) rispetto alle donne senza figli (24,2%). Tra gli uomini, al contrario, cala dall’8,9% al 5,2% tra chi non ha figli e chi li ha. La percentuale di tempo parziale involontario, invece, è pressoché invariata tra le donne con (16%) e senza figli (17%). Anche in questo caso sono evidenti le disparità a livello territoriale, soprattutto tra le donne: a Nord il tempo parziale raggiunge il picco (39,3%) tra le madri di figli minori, mentre per le non madri è del 20,7%. Al Centro questa opzione mostra percentuali di poco superiori tra le non madri (25,3%) e poco più basso tra le madri di figli minori (36,2%). Al Sud cresce ancora tra le non madri (31,8%) e cala invece tra le madri di minori (34,3%). Per gli uomini la diffusione del tempo parziale è limitata e crescente da Nord a Sud, con una proporzione crescente sia per i padri che per i non padri, mantenendosi su percentuali decisamente inferiori rispetto a quelle femminili. Il report sottolinea poi che l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) dal 2013 propone di utilizzare un ulteriore indicatore per cogliere a pieno le dinamiche lavorative: la sottoccupazione. Essa corrisponde alla misura di quanti/e dichiarano di lavorare meno di quanto avrebbero potuto o voluto fare, per ragioni indipendenti dalla propria volontà53. Sono le donne ad avere nel 2021 un maggior tasso di sottoccupazione (11,8% vs. 7,6% degli uomini). INAPP attribuisce questa disparità proprio alla maggiore concentrazione della componente femminile nel lavoro part-time.

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha pubblicato anche per il 2021 la relazione annuale sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri. Dopo una flessione riscontrata durante il 2020, anno pandemico, le dimissioni volontarie ritornano ad aumentare: le convalide complessivamente adottate su tutto il territorio nazionale sono state 52.436. Di queste, 37.662 convalide (il 71,8%) si riferiscono a donne e 14.774 (28,2%) a uomini. Il netto squilibrio di genere che caratterizza da dieci anni le dimissioni volontarie post nascita è confermato, anche se è andato notevolmente a ridursi nel tempo: le dimissioni delle madri erano il 97,1% del totale nel 2011. Questa riduzione è dovuta non ad una diminuzione delle dimissioni delle madri, che aumentano, al netto del 2020 anno pandemico, in maniera lenta e che nel 2021 sono state superiori a quelle del 2019, ma ad una crescita in termini di unità più netta tra gli uomini. L’indagine INAPP-PLUS arricchisce queste informazioni di alcuni dettagli riguardanti un campione di donne di età compresa tra i 18 e i 49 anni che ha vissuto la maternità. Tra queste, a distanza di tre mesi dalla nascita del figlio più piccolo, il 44% permane nello stato di attività lavorativa, il 32% in quello di inattività o disoccupazione, mentre il 18% dichiara di essere uscita dall’occupazione. Il 7% invece rappresenta i nuovi ingressi. L’incidenza di chi esce dall’occupazione è più alta tra quante sono in condizione di monogenitorialità (23%), tra le più giovani (42,7% per le 18-24enni), vede una diversa distribuzione tra le donne sulla base del livello di istruzione, ma meno marcata di altre differenze (21,1% tra chi ha meno della licenza media e 16,9% tra le laureate), ed è equamente distribuita tra aree geografiche, tanto che l’uscita dal mercato del lavoro non ha una relazione diretta con i tassi di occupazione territoriale.

Tornando ai dati dell’Ispettorato e guardando alle tipologie di dimissioni, la distribuzione delle donne non è omogenea: sono il 71,5% delle convalide relative a dimissioni volontarie, l’87,5% di quelle riferite a dimissioni per giusta causa (dove il divario di genere è massimo) e il 61,6% delle convalide concernenti le risoluzioni consensuali. Nella richiesta di convalida delle dimissioni viene sollecitato di indicare uno o più motivi sottesi alle dimissioni o alla risoluzione consensuale. Se poniamo a 100 il totale delle motivazioni che sono state segnalate da uomini e donne distintamente, vediamo che le motivazioni sono diverse. Tra gli uomini il 78% delle dimissioni è legato al passaggio ad altra azienda, il 3% alla difficoltà di conciliazione tra lavoro e attività di cura, il 4% a ragioni legate all’azienda e il 3% a cambio residenza o distanza. Per le donne il quadro è più complesso. Le difficoltà di conciliazione tra lavoro e funzione di cura sono complessivamente il 65,5% del totale delle motivazioni, divise tra le difficoltà connesse alla mancanza di servizi (44%) e il 22% a problematiche legate all’azienda e di organizzazione del lavoro. Solo il 22% fa riferimento a casi di trasferimento ad altra azienda. Il 4% delle risposte riguarda la distanza del luogo di lavoro, esigue le quote di quante segnalano altre motivazioni.

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