Quando le estati erano estati

- di: Barbara Leone
 
Noi che volevamo fare nostro il mondo e vincere o andare tutti a fondo… Ce li siamo tatuati nel cuore gli anni più belli cantati da Baglioni. Quelli di quando il libro era tutto da scrivere, e il film ancora da girare. Forse è proprio perché eravamo ai primi ciak che era tutto più bello. O semplicemente era il mondo ad esser meno bastardo. Sicuramente più genuino, e lento. Le estati erano estati, e non solo da un punto di vista meteorologico. Ti trapassavano l’anima. Avevano altri colori, altri profumi e sfumature. Erano una conquista, e le anelavamo tutto l’anno. Non come adesso che tra ponti, week end e tre giorni al volo con l’offerta last minute andiamo in vacanza quando ci pare. Che poi, manco si chiamavano vacanze. Era la villeggiatura, che per molti cominciava con la fine della scuola.

Quando le estati erano estati

O, più canonicamente, ad agosto. Per tutti, o quasi, voleva dire mare. Croce per genitori e nonni, delizia per noi bambini. Si partiva tutti insieme allegramente. E i viaggi erano decisamente disagevoli, stipati come eravamo a mo’ di sardine nelle macchine di allora. Che se andava bene avevano la ventola dell’aria fredda che pareva un trattore per quanto rumore faceva, e i deflettori che puntualmente si chiudevano ai 70 all’ora lasciandoti a boccheggiare. In viaggio ci divertivamo a indovinare le targhe di chi ci sorpassava, e se era come la tua si suonava il clacson salutando perché eravamo paesani. Erano macchine, le nostre, cariche d’aspettative e d’ogni d’ogni ben di Dio. Perché al mare ci si portava di tutto, manco uno dovesse andare in Africa orientale. Tra una sosta pipì e una sosta vomito (perché le pasticchette per il mal d’auto le conoscevano in pochi) si arrivava stremati, ma felici, alla meta. Che poi era ogni anno la stessa.

E lì ritrovavi in fila tutti i vecchi amici e forse pure il filarino dell’anno prima, che ovviamente nel frattempo si era messo con un’altra. Al mare non c’erano sdraio e lettini a 40 euro al giorno, e tuo nonno era il nonno di tutti. Altro che bagnino! Pochi lidi, e tutti con l’ombrellone personale. Ci si divertiva con poco: un castello di sabbia, le formine, il retino per i pesciolini che toccavamo e ributtavamo subito in mare, per i più coraggiosi i pedalò. Ma difficilmente la mamma ti dava il permesso perché era pericoloso andare al largo. Che poi era cento metri più in là. Il cremino costava 200 lire, ed il legnetto te lo succhiavi davvero per ore tenendotelo in bocca a mo’ di sigaretta perché faceva tanto figo. C’era il piedone, ma solo per pochi perché era un gelato tutto rosa e chissà cosa ci mettono dentro. A pranzo pane e frittata, e dovevi aspettare almeno tre ore prima di fare il bagno: non si discute. Nessuno aveva compiti per l’estate, e quando a settembre tornavamo a scuola il primo tema era sempre “parla delle tue vacanze”. Dove l’unico problema era non ustionarti, non bucare il pallone e non fare chiasso al pomeriggio. Ch’era adiposo, pigro e lento.

Animato solo dal canto ritmico delle cicale, e dall’inconfondibile rumore degli zoccoli di legno dei grandi. Le foto erano in bianco e nero, e chi c’aveva la polaroid faceva un figurone perché era tanto uaooo. E se l’Italia era la terza potenza mondiale, le persone erano la prima potenza di gioia e d’allegria pura. Eravamo tutti uguali, se qualcuno non aveva tanto non c’era problema. Perché dove mangiamo in quattro mangiamo anche in cinque, in sei o più. I giochi erano un pallone mezzo sgonfio, il frisbee e un due tre stella. E se andando in altalena cadi e ti fai male ti do pure il resto. Ci si divertiva con così poco, in quelle estati là. Perché, in confronto ad oggi, poco c’era. Ma in quel poco riuscivamo a trovare il nostro tutto.

Ce lo inventavamo. Bastava un cesto di more, che quando le mangiavi ti sporcavi dappertutto e quel rosso sulla maglietta lo facevi diventare sangue. E da lì partiva una storia. Ci ha salvato la fantasia, e continua a salvarci ancora oggi che ci sentiamo un pesce sull’albero. Perché nel frattempo il mondo è andato avanti troppo veloce, e non ci ha dato il tempo di stare al suo passo. Probabilmente è un sentire comune a chi si avvicina ai cinquanta, o li ha superati da un po’. Non così vecchi da morir di nostalgia. Non così giovani da poter sognare ancora. Non troppo lenti, ma nemmeno veloci. Perché anche se ce la mettiamo tutta c’è sempre qualcosa che ci sfugge. I millennials, quelli nati dopo il fatidico Duemila, capiscono sempre tutto al volo. Sono smart, veloci come la fibra ottica, sempre connessi. E in questa perpetua e sfibrante batracomiomachia noi, quelli che, usciamo nove volte su dieci perdenti. Sbiaditi come i pixel di una foto della polaroid. Ne usciamo con le ossa rotte, l’amaro in bocca e l’anima a brandelli come dice la canzone. Perché erano ieri, appena ieri, gli anni più belli…
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