Le trasformazioni in atto nella società attuale fanno emergere un nuovo fenomeno, che si può cogliere pragmaticamente.
Tradizionalmente, infatti, i due fattori della produzione, il capitale ed il lavoro, venivano virtuosamente mixati tra di loro così da creare posti di lavoro che, nel tempo, hanno consentito vari livelli di benessere, soprattutto nei ceti minori.
Ora, invece, grazie alle nuove combinazioni di capitale e lavoro, può essere creata ricchezza senza generare nuovi posti di lavoro. Possono, cioè, essere ignorate le politiche sociali del lavoro, preoccupandosi del solo capitale, che non riconosce i limiti dei confini nazionali.
Ciò preoccupa soprattutto i ceti medi, dato che le forme di sicurezza e di protezione sociale che sono state progettate per la nostra “società del lavoro” non danno più le garanzie di una volta.
La questione è profonda e delicata. Come scrive Ralf Darendorf (Dopo la crisi. Ed. LaTerza) al capitalismo di risparmio, prevalente nella nostra società, si è sostituito, progressivamente, un capitalismo di consumo. Peggio ancora, questo capitalismo è oggi definibile come “Capitalismo del Debito”.
L’Institute of International Finance di Washington recentemente ha quantificato i debiti mondiali in 237 trilioni di dollari.
Inoltre, il Fondo Monetario Internazionale, che nel suo conteggio non inserisce i debiti delle istituzioni pubbliche finanziarie, rileva in 164 trilioni di dollari l’ammontare dei debiti mondiali.
Questo significa che, secondo il F.M.I., tale debito è pari al 245% del PIL mondiale (dati 2017, Repubblica 24.06.2018).
Va osservato che dal 2008 (anno della crisi) non c’è stata alcuna riduzione del debito.
Viviamo, dunque, all’interno di questo capitalismo “malato” (Darendorf) che mette insicurezza soprattutto nelle famiglie.
Dalla creazione di valore nel manifatturiero (virtuoso mix di capitale e lavoro) si sta passando all’impoverimento portato avanti dalla speculazione sui prodotti finanziari; in primo luogo il commercio speculativo dei cosiddetti “derivati”.
In altre parole, fare ”soldi dai soldi”, e non dal lavoro. Si fanno, cioè, debiti all’infinito. Si pensi alla “catena” inventata nel mondo, in primis negli USA, che ha portato alla profonda crisi del 2008. La paura della povertà contagia tutto il globo, vista l’esperienza a macchia d’olio delle crisi finanziarie.
Si è consapevoli della “fragilità” di sofisticati strumenti finanziari, che sono l’effetto più evidente della finanziarizzazione globale dell’economia. Davanti ad un futuro nebuloso ed incerto molte persone temono di perdere l’attuale benessere, e si prestano a diventare vittime consenzienti del populismo più grossolano.
Si fa avanti una rabbia popolare, che si esprime con modalità diverse anche nei paesi più avanzati. La paura sta diventando “globale”. Eppure, fino a pochi anni fa, ci illudevamo di essere ricchi: il nostro prodotto interno lordo, nel 1986, metteva l’Italia al quinto posto (davanti all’Inghilterra) dei paesi economicamente più avanzati (fonte ISTAT) e si credeva che le cose avrebbero continuato a migliorare.
Se ciò non è accaduto una delle cause è imputabile, come già evidenziato ampiamente in precedenti articoli apparsi su questo magazine, all ‘entusiasmo nel mettere al centro del sistema la finanza “facile”, quella speculativa.
Ed ora, dobbiamo rassegnarci a “morire” di capitalismo del debito?
Eppure l’Italia, come evidenzia Valerio Castronuovo ( L’Anomalia italiana Editore Marsilio) nei primi anni Duemila era tra i paesi della U.E. con un più elevato numero di imprese manifatturiere e di servizi. Per questo insieme di soggetti economici serve una visione strategica di politica industriale al fine di orientare positivamente la trasformazione che è già in atto nel sistema produttivo. Tali trasformazioni riguardano soprattutto i ceti popolari che hanno il loro asse portante nel forte tessuto connettivo tra famiglia, azienda e territorio. Fenomeno non nuovo per il sistema produttivo italiano, che si è già espresso come cun punto di forza per il processo di industrializzazione passata. Infatti, è stato, in passato, un fattore che ha creato coesione sociale.
Per cui, anche con la paura della povertà, e pur sotto il peso di eccessivi carichi fiscali e di impossibili procedure burocratiche, questo nuovo ceto imprenditoriale va avanti, producendo buoni risultati economici (soprattutto nell’export).
Per il resto, prevale un clima pesante di sfiducia e pessimismo , giustificato dall’attuale ordinamento legislativo italiano ( che si avvale di oltre 80.000 norme statali,regionali e comunali, contro le circa 6.ooo della Germania,nel quale le retribuzioni reali hanno continuato a perdere potere di acquisto, malgrado un trend positivo dei profitti delle imprese destinati ad alimentare prevalentemente le rendite finanziarie e quelle immobiliari .
Nelle nuove generazioni c’è grande fiducia nella tecnologia, nel potere degli algoritmi e nell’intelligenza artificiale, ma a noi sembra che il futuro si presenti invece nebuloso e incerto, mentre il presente è iniquo per l’aggravarsi degli squilibri sociali. Infatti gli investimenti pubblici risultano lenti e inefficaci e non riescono ad avviare un processo di vero rinnovamento amministrativo, tagliando gli sprechi delle spese correnti e investendo in formazione e cultura.
Forse la speranza che le cose migliorino in futuro è affidata sempre più al ruolo e al coinvolgimento di una cittadinanza attiva, che si impegni nella realizzazione di ideali di giustizia, di libertà e di uguaglianza, al di là degli interessi personali, stimolando i partiti,i sindacati e le forze istituzionali a trovare risposte risolutive all’attuale sistema in difficoltà invece di limitarsi a galleggiare patteggiando tra di loro.