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L’Opificio delle Pietre Dure festeggia cinquant’anni con Giotto, tra memoria dell’alluvione e rinascita del restauro

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
L’Opificio delle Pietre Dure festeggia cinquant’anni con Giotto, tra memoria dell’alluvione e rinascita del restauro

FOTO: SalikoCC BY 2.5

Cinquant’anni dopo la sua fondazione, l’Opificio delle Pietre Dure celebra il proprio cammino con un gesto che unisce arte, scienza e memoria: il restauro del ciclo giottesco nella Cappella Bardi di Santa Croce, a Firenze. Non un’inaugurazione autoreferenziale, ma un ritorno alle origini. Perché l’Opificio moderno nasce, nel 1975, anche dalla ferita dell’alluvione del 1966. I laboratori medicei si trasformano in centro di eccellenza nella tutela, e quella vocazione – salvare ciò che sembra perduto – oggi trova eco nel recupero degli affreschi attribuiti a Giotto.

Il cantiere come atto politico
Il restauro, avviato nel 2022 e in via di conclusione entro l’estate, non è solo un’opera tecnica. È una dichiarazione di responsabilità pubblica verso il patrimonio, una scelta che mette in dialogo istituzioni e cittadini. L’Opera di Santa Croce, l’Opificio, l’Arpai, la Fondazione CR Firenze, lo Stato – attraverso l’Art Bonus – e donatori privati si sono uniti per finanziare un progetto da oltre un milione di euro. Il cantiere, per alcuni mesi, è stato aperto ai visitatori: una torre trasparente per guardare il volto di San Francesco da vicino, per riscoprire la forza gentile della pittura giottesca senza la mediazione delle teche.

La forza del dettaglio
Gli esiti scientifici del restauro confermano la mano di Giotto e datano il ciclo tra il 1320 e il 1325, poco prima della morte del maestro. Ma non è solo questione di datazione. La pulitura ha restituito volume alle figure, luce ai panneggi, emozione agli sguardi. I tecnici dell’Opificio hanno lavorato con metodi non invasivi e materiali reversibili, in dialogo con università e centri internazionali. In alcuni casi, bastava sollevare un velo di polvere per restituire trasparenza a un incarnato. In altri, serviva ricostruire la coerenza iconografica del racconto, senza mai sovrapporre la mano del restauratore a quella dell’artista.

Un’eredità politica e culturale
Il direttore dell’Opificio, Emanuela Daffra, ha voluto che il cinquantesimo non fosse celebrazione ma bilancio. Cinquant’anni dopo, l’Italia del restauro si interroga sul suo ruolo: non solo custodire, ma interpretare, educare, coinvolgere. Il restauro di Santa Croce diventa così un’occasione di pedagogia pubblica: mostrare cosa vuol dire prendersi cura, in un tempo che ha smarrito l’idea stessa di manutenzione – del paesaggio, delle parole, delle opere d’arte.

Giotto come pretesto civile
“Giotto dava vivezza con l’uovo”, dice il titolo della mostra che accompagnerà l’intervento. E quell’uovo, simbolo di pittura a tempera ma anche di fragilità e rigenerazione, diventa la chiave di lettura di tutto il progetto. Perché restaurare oggi non è solo rimettere a posto ciò che si è rovinato. È un atto di fiducia nella memoria e nel futuro, un modo per dire che anche il tempo – se curato – può essere restituito alla comunità.

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