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CPI: Nordio nel mirino, Parlamento chiamato al voto sul processo

- di: Jole Rosati
 
CPI: Nordio nel mirino, Parlamento chiamato al voto sul processo
Il tribunale dei ministri lo accusa di rifiuto di cooperare con la Cpi. Ignorò le richieste, tacque ai giudici, bloccò i funzionari: ora la Camera decide.

Il silenzio “indebito” del ministro della Giustizia Carlo Nordio è ora al centro di una richiesta formale di autorizzazione a procedere, inviata alla Camera dal Tribunale dei ministri, nell’ambito del caso che coinvolge il cittadino libico Najeem Osama Almasri. La posizione di Nordio, insieme a quelle del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano, è stata ritenuta talmente grave da configurare, secondo i giudici, una violazione dell’articolo 328 del Codice penale: rifiuto e omissione di atti d’ufficio.

Il quadro ricostruito dal tribunale non lascia ambiguità: il Guardasigilli non solo non fece nulla per dare esecuzione al mandato della Corte penale internazionale (Cpi), ma bloccò ogni tentativo di cooperazione, ignorando ripetutamente la magistratura italiana, i funzionari della Cpi e i suoi stessi uffici.

Il tempo c’era, la volontà no

Negli atti inviati al Parlamento i giudici ricostruiscono passo dopo passo l’inerzia ministeriale: «Aveva tempo e strumenti per provvedere, ma non lo fece», scrivono. Secondo il Tribunale, Nordio ricevette formalmente le richieste della Cpi, già prima del 20 gennaio, attraverso il canale diplomatico previsto dal Trattato di Roma.

In quel frangente, la Polizia italiana aveva anche arrestato Almasri, e gli atti relativi erano stati trasmessi contestualmente al Ministero e all’autorità giudiziaria. Nonostante ciò, «non fu dato corso né all’arresto provvisorio né al sequestro», si legge nella motivazione.

Il Dipartimento per gli Affari di Giustizia aveva persino predisposto una bozza di provvedimento pronta all’invio all’autorità giudiziaria, nel rispetto della scadenza di 48 ore. Ma Nordio la ignorò.

La catena delle omissioni: mail, pressioni e silenzi

La ricostruzione inchioda il ministro. Non rispose mai al procuratore generale della Corte d’appello, che attendeva le sue determinazioni. Non rispose alle sollecitazioni dei funzionari della Cpi, anzi – affermano i giudici – diede disposizione esplicita ai suoi uffici di non rispondere affatto.

Il caso esplose quando venne resa pubblica una mail interna del 19 gennaio da parte del capo del DAG, Luigi Birritteri, che informava il capo di gabinetto Giusi Bartolozzi della necessità di prudenza vista l’assenza del via libera all’arresto. La risposta fu secca: «Ne siamo consapevoli, si utilizzi Signal». Questo scambio smentisce clamorosamente quanto dichiarato da Nordio in Parlamento, ossia che fu informato solo in modo “non formale”.

L’espulsione concordata

Il silenzio del ministro non fu passivo. Secondo il Tribunale, Nordio agì per favorire l’espulsione del generale libico, pur sapendo che si stava sottraendo a un mandato della giustizia internazionale. Addirittura, omise di informare la Cpi dell’esistenza di una richiesta concorrente di estradizione da parte della Libia, che però fu protocollata solo il 22 gennaio, quindi dopo l’espulsione.

Il quadro si complica ulteriormente: il 20 gennaio, secondo i verbali delle riunioni interne al governo, era già stato deciso di espellere Almasri nel caso in cui la Corte d’appello ne avesse disposto la scarcerazione. Quando questo avvenne – a causa di un errore procedurale – il ministro non fece nulla per bloccare l’espulsione, anzi: ne fu consapevole e corresponsabile.

Piantedosi e Mantovano: favoreggiamento e peculato

Per Piantedosi e Mantovano, i giudici ipotizzano reati ancora più gravi: favoreggiamento aggravato e peculato. I due sono accusati di aver organizzato il trasferimento di Almasri su un volo CAI, evitando l’arresto internazionale. L’utilizzo illecito di un aereo di Stato aggrava ulteriormente il quadro accusatorio. I tre, secondo il Tribunale, «agivano di concerto» per evitare che Almasri fosse sottoposto a procedura internazionale.

Meloni archiviata, ma non esente

La premier Giorgia Meloni, che partecipò alle riunioni, è stata formalmente archiviata dalla stessa procura. Ma l’archiviazione non la mette al riparo dalle polemiche. Su X ha rivendicato la “piena collegialità” delle decisioni e ha definito assurdo che si chieda il processo per tre ministri senza coinvolgere il Presidente del Consiglio. La sua dichiarazione del 5 agosto è un chiaro messaggio alla maggioranza: «La mia archiviazione dimostra l’infondatezza dell’intero impianto».

Prossime tappe: la Camera al bivio

La Giunta per le autorizzazioni della Camera avrà ora 60 giorni per esaminare gli atti e decidere se dare il via libera al processo. A quel punto la questione passerà all’Aula. Il precedente della ministra Santanchè, per la quale l’autorizzazione fu respinta, pesa. Ma qui si parla del ministro della Giustizia in carica, coinvolto in una vicenda di sabotaggio istituzionale verso la giustizia internazionale.

La crisi dell’autorità legale

Il caso Nordio non è un incidente. È un atto politico. È la rappresentazione plastica della frattura tra lo Stato di diritto e il potere esecutivo, tra l’Italia e la giustizia sovranazionale. Un ministro della Giustizia che, pur avendo tutto il tempo, le bozze, le sollecitazioni e le prove sotto mano, decide consapevolmente di non agire, e anzi blocca chi vorrebbe farlo, è un ministro che mina alla base l’idea stessa di legalità.

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