È morto Tatsuya Nakadai, e con lui se ne va una delle ultime incarnazioni viventi della tragedia e della nobiltà del cinema giapponese. Aveva 92 anni, un’età in cui anche gli spiriti più forti sembrano piegarsi al tempo, ma la sua figura rimane scolpita come quella di un samurai del sentimento e del dubbio, l’uomo che ha saputo tenere in equilibrio l’onore e la disperazione, la spada e il pensiero.
Nakadai, l’ultimo samurai del cinema che trasformò il silenzio in dolore
Fu Masaki Kobayashi, uno dei grandi del dopoguerra, a scoprirlo quasi per caso: un giovane commesso in un negozio di Tokyo che, con un solo sguardo, convinse il regista a offrirgli un ruolo ne La stanza dalle pareti spesse (1954). Da lì, una carriera che non somigliò mai a una corsa al successo ma a una via spirituale, fatta di discipline, prove morali e silenzi.
Il volto della “condizione umana”
Con Kobayashi, Nakadai girò undici film, ma fu con la trilogia La condizione umana (1959–1961) che si impose come l’interprete simbolo del Giappone ferito e in cerca di redenzione. Il suo Kaji, pacifista in un mondo di soldati, è un uomo che non combatte solo contro l’oppressore, ma contro il proprio destino. Fu un ruolo totale, morale, quasi sacrale: il cinema come confessione civile.
Nel 1962, in Harakiri, Nakadai incarnò il ronin Hanshiro Tsugumo, il samurai senza padrone che si ribella all’ipocrisia del potere feudale. Nessuno, prima di lui, aveva mostrato con tale forza il contrasto tra il codice dell’onore e l’umiliazione della sopravvivenza. Da quel film in poi, il suo volto — severo e fragile allo stesso tempo — divenne un’icona: la maschera del Giappone che cambiava pelle.
L’allievo che superò il maestro
Il destino lo portò poi a incrociare il genio di Akira Kurosawa, il regista che aveva già immortalato la figura del samurai nella memoria collettiva. Nakadai fece una breve apparizione in I sette samurai (1954), non accreditata, ma sufficiente a meritarsi per sempre il soprannome di “ottavo samurai”.
Quando Kurosawa ruppe il sodalizio con Toshiro Mifune, trovò in Nakadai il suo nuovo alter ego: più introverso, più filosofico, meno istintivo. Con lui girò capolavori come La sfida del samurai (1961), Sanjuro (1962), Kagemusha (1980) e soprattutto Ran (1985), monumentale riscrittura del Re Lear di Shakespeare.
Nel ruolo di Hidetora Ichimonji, il sovrano che vede dissolversi il proprio regno e la propria famiglia, Nakadai divenne il simbolo stesso della decadenza. Kurosawa disse di lui: “È capace di trasformare il silenzio in parola e la parola in dolore”. In quella definizione, c’è tutto il mistero del suo talento.
Il gigante discreto
Lontano dalla vanità e dalle mode, Nakadai fu anche interprete per altri maestri: Ichikawa, Teshigahara, Gosha, Naruse, Okamoto. Recitò in film di culto come Kwaidan (1964), Il volto di un altro (1966), Goyokin (1969) e persino in un western italiano, Oggi a me… domani a te di Tonino Cervi.
Elegante, schivo, magnetico, era l’attore che non cercava la luce dei riflettori ma la verità dietro il personaggio. Diceva: “Un attore non deve mai smettere di cercare la verità, anche quando recita un samurai”.
L’eredità di un samurai moderno
Nel 2015 ricevette l’Ordine della Cultura, la massima onorificenza giapponese, e nel 1992 la Francia lo nominò Cavaliere delle Arti e delle Lettere. Riconoscimenti che non cambiarono la sua sobrietà. Fino a pochi anni fa insegnava ai giovani attori, predicando disciplina, misura e silenzio.
“Un attore come Nakadai capita una volta ogni secolo”, disse di lui Kobayashi.
E aveva ragione. Con la morte di Tatsuya Nakadai, il cinema non perde solo un interprete, ma una coscienza estetica e morale.
Quella che ha saputo raccontare, come nessun altro, la tragedia dell’uomo di fronte al potere, alla guerra e al tempo.
Un samurai del pensiero, ultimo e irripetibile.