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Migranti, stretta Ue sui rimpatri: 7 Paesi sicuri e centri in Albania

- di: Bruno Legni
 
Migranti, stretta Ue sui rimpatri: 7 Paesi sicuri e centri in Albania
Migranti, stretta Ue sui rimpatri: 7 Paesi sicuri e centri in Albania
Dal Consiglio Ue arriva la prima lista comune di Paesi di origine sicuri e il via libera politico ai “return hubs” fuori dall’Unione. L’Italia vede riaprirsi la partita dei centri in Albania, mentre ong e giuristi parlano di salto di qualità repressivo.

Un voto tecnico, ma dal peso politico enorme. A Bruxelles i ministri dell’Interno dei Ventisette hanno trovato un’intesa su due tasselli chiave della politica migratoria europea: la riforma del concetto di Paese terzo sicuro e la prima lista Ue di Paesi di origine sicuri. Sullo sfondo, un nuovo regolamento sui rimpatri che istituzionalizza i return hubs, centri di espulsione collocati in Stati extra-Ue.

Per Roma è la notizia che aspettava: l’accordo offre finalmente una cornice giuridica europea all’esperimento dei centri italiani in Albania, bloccati e rimodulati dopo gli interventi della giustizia europea. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi rivendica il risultato come una conferma della linea italiana: strutture esterne ai confini Ue dove trattenere i migranti in vista del rimpatrio.

Che cosa ha deciso il Consiglio Ue

Il Consiglio Giustizia e affari interni ha approvato la propria posizione su:

  • un regolamento che rivede e amplia l’uso del concetto di Paese terzo sicuro nelle procedure di asilo;
  • un regolamento che istituisce la prima lista comune Ue di Paesi di origine sicuri;
  • un nuovo regolamento sui rimpatri, con regole armonizzate e la possibilità di creare hub di ritorno fuori dall’Unione.

L’intento dichiarato è quello di accelerare le procedure per le persone che, secondo gli Stati membri, «non hanno bisogno di protezione» e di aumentare il numero dei rimpatri effettivi, da anni tallone d’Achille delle politiche europee sull’immigrazione irregolare.

I sette Paesi di origine sicuri e i candidati all’ingresso nell’Ue

La vera novità simbolica è la creazione di una lista Ue di Paesi di origine sicuri. Il Consiglio ha concordato che, a livello europeo, debbano essere considerati sicuri:

  • Bangladesh
  • Colombia
  • Egitto
  • India
  • Kosovo
  • Marocco
  • Tunisia

A questi si aggiungono in blocco i Paesi candidati all’adesione Ue (Albania, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Moldova, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia, Turchia, Ucraina): anche loro sono considerati “di origine sicura” a meno che non emergano condizioni particolari, come conflitti armati o una quota troppo alta di domande d’asilo accolte nei loro confronti.

In pratica, per chi arriva da questi Stati, la richiesta di protezione internazionale sarà esaminata con procedure accelerate e spesso alla frontiera. La regola implicita è semplice e pesante: se vieni da un Paese che l’Ue ritiene sicuro, la tua domanda parte già con un segno meno.

Che cosa significa “Paese terzo sicuro”

Diverso, ma collegato, è il concetto di Paese terzo sicuro. Non riguarda il Paese di origine, ma uno Stato extra-Ue considerato adeguato a esaminare la domanda di asilo e a ospitare la persona in sicurezza.

Con le nuove regole, un Paese membro potrà dichiarare inammissibile una richiesta d’asilo, senza entrare nel merito, se ritiene che il richiedente:

  • abbia un collegamento con un Paese terzo sicuro (per esempio perché vi ha soggiornato o ha familiari);
  • abbia semplicemente transitato da quel Paese prima di arrivare nell’Ue;
  • oppure se esiste un accordo specifico tra lo Stato membro e quel Paese terzo in base al quale quest’ultimo si impegna a esaminare la domanda.

Proprio quest’ultima opzione è il cuore politico della riforma: è ciò che consente di spostare la gestione delle domande d’asilo e dei rimpatri fuori dall’Unione, appoggiandosi a paesi partner considerati sicuri.

Return hubs: la legalizzazione dei centri fuori dall’Ue

Il nuovo regolamento rimpatri completa il quadro. Per la prima volta viene codificata la possibilità di istituire veri e propri hub di ritorno in paesi terzi, dove concentrare le persone a cui è stato notificato un ordine di lasciare l’Unione e organizzare i rimpatri.

Gli Stati membri avranno margini per:

  • imporre obblighi più stringenti alle persone con un ordine di espulsione (obbligo di firma, limitazioni agli spostamenti, consegna dei documenti);
  • ricorrere più facilmente al trattenimento e, in caso di mancata collaborazione, anche a sanzioni detentive previste dal diritto nazionale;
  • stipulare accordi con paesi terzi per trattenere i migranti in strutture dedicate in attesa di rimpatrio.

Il pacchetto, prima tappa di un negoziato con il Parlamento europeo, dà così una legittimazione politica e normativa a schemi già sperimentati o pianificati, come quelli fra Italia e Albania o, in altre forme, fra Stati membri e paesi africani.

I centri italiani in Albania come laboratorio europeo

L’accordo europeo arriva al termine di due anni travagliati per il cosiddetto modello Albania. Il protocollo tra Roma e Tirana, firmato nel novembre 2023, ha previsto la costruzione di due strutture a Shëngjin e Gjadër, formalmente sotto giurisdizione italiana, dove trasferire i migranti soccorsi in mare dalle navi militari italiane per identificarli, esaminare rapidamente le domande d’asilo ed eseguire gli eventuali rimpatri.

Sulla carta doveva essere il simbolo della “nuova gestione esternalizzata” delle frontiere. In pratica, il progetto ha inciampato su:

  • ricorsi giudiziari in Italia e in Europa, che hanno messo in discussione la compatibilità dell’accordo con il diritto Ue e con la CEDU;
  • una sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che ha censurato il trattenimento in Albania di richiedenti asilo bengalesi e ha imposto criteri più rigorosi sulla nozione di Paese sicuro e sulle garanzie procedurali;
  • criticità organizzative e costi crescenti, con periodi in cui i centri sono rimasti quasi vuoti o inutilizzati.

Per sbloccare la situazione, il governo italiano ha trasformato Gjadër in un vero e proprio Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR), ampliando la platea delle persone trattenibili e puntando sempre più sulla funzione di hub per le espulsioni dirette dal territorio albanese verso i Paesi di origine.

L’intesa raggiunta al Consiglio Ue viene letta a Roma come il tassello mancante: una volta che le nuove norme saranno definitivamente approvate, i centri in Albania potranno essere presentati come primo prototipo di return hub europeo, in linea con i regolamenti Ue.

La soddisfazione del Viminale

Dal Viminale il clima è di aperta soddisfazione. Piantedosi sottolinea come il voto dei ministri dell’Interno «riconosca la legittimità» di soluzioni esterne al territorio Ue e consenta ai centri in Albania di tornare a svolgere tutte le funzioni immaginate all’origine: trattenimento per le procedure accelerate di frontiera e organizzazione dei rimpatri.

Nella lettura del governo, l’Europa si allinea così a una visione italiana che punta a spostare più a sud e a est la linea effettiva di controllo delle frontiere, moltiplicando gli accordi con Paesi partner per la gestione congiunta dei flussi e dei ritorni.

La narrativa dei Paesi “sicuri” e i dubbi sui diritti umani

Dietro la formula giuridica di “Paese sicuro” si gioca però una partita delicatissima. La presunzione di sicurezza riduce lo spazio di manovra dei singoli richiedenti, che dovranno dimostrare di rientrare in eccezioni individuali (appartenenza a minoranze perseguitate, dissidenza politica, orientamento sessuale, genere, e così via).

Il problema è che molti dei Paesi inseriti nella lista sono da anni oggetto di rapporti critici da parte di ong e organismi internazionali: dall’uso esteso della detenzione in Egitto, alle violenze contro migranti subsahariani in Tunisia, passando per la repressione del dissenso e le violazioni dei diritti sindacali in Bangladesh e le limitazioni alle libertà civili in Marocco.

Una coalizione di oltre 200 organizzazioni per i diritti umani denuncia che la stessa Commissione europea, nella relazione che accompagna la proposta, riconosce l’esistenza di gravi violazioni nei Paesi indicati, ma nonostante ciò propone di considerarli “sicuri” a fini di asilo. Il rischio, sostengono, è di trasformare una finzione giuridica in un automatismo che respinge persone verso luoghi dove potrebbero subire persecuzioni.

Le critiche al regolamento rimpatri e ai return hubs

Le nuove norme sui rimpatri vengono bollate dalle ong come una stretta senza precedenti. Amnesty International parla di approccio «punitivo» e «disumanizzante», denunciando l’aumento di detenzione, controlli, sorveglianza e raids contro i migranti irregolari.

In particolare preoccupa:

  • la possibilità che chi non collabora al rimpatrio, rifiutando per esempio di firmare documenti o di rivelare la propria identità, possa finire in carcere per questa sola ragione;
  • la creazione di hub di ritorno in paesi terzi, dove famiglie e minori potrebbero essere trattenuti a lungo, con garanzie difficili da verificare sul rispetto del divieto di respingimento verso paesi non sicuri;
  • il rischio di un vuoto di diritti in strutture poste fuori dal territorio Ue ma di fatto controllate dagli Stati membri, come nel caso dei centri italiani in Albania.

Giuristi e attivisti parlano apertamente di esternalizzazione del sistema d’asilo, un modello che sposta lontano dagli occhi dell’opinione pubblica le fasi più controverse: detenzione, identificazione forzata, espulsione.

Che cosa succede adesso: il ruolo del Parlamento europeo

Quella approvata dal Consiglio non è ancora la versione definitiva delle nuove leggi. Tocca ora al Parlamento europeo negoziare il testo finale in trilogo con gli Stati membri.

La commissione Libertà civili dell’Eurocamera ha già espresso un via libera di principio alla lista dei Paesi di origine sicuri, introducendo qualche correttivo sulle clausole di sospensione dello status di “sicuro” in presenza di conflitti o di misure repressive particolarmente gravi. Restano però divisioni tra gruppi politici, con una parte del campo progressista e verde apertamente ostile al pacchetto.

Se il calendario sarà rispettato, le nuove regole potrebbero entrare in vigore in anticipo rispetto alle scadenze originarie del Patto su migrazione e asilo, spingendo gli Stati membri a rivedere rapidamente le proprie legislazioni nazionali su asilo, trattenimento e rimpatri.

Italia in prima linea: tra consenso interno e contenziosi

L’Italia si trova così al centro della scena. Da un lato può presentarsi come apripista del nuovo corso europeo, con l’esperimento albanese promosso a modello di return hub. Dall’altro resta esposta a un contenzioso giuridico che è tutt’altro che chiuso.

Le sentenze della Corte di giustizia e i procedimenti ancora pendenti, insieme ai ricorsi di associazioni e singoli migranti, continueranno a misurare la tenuta europea del “modello Albania”. Ogni nuovo rimpatrio effettuato da Gjadër o Shëngjin verso i Paesi ora definiti “sicuri” sarà passato al setaccio da tribunali, organismi internazionali e opinione pubblica.

Nel frattempo, la stretta Ue rischia di produrre un effetto collaterale immediato: più persone dichiarate inammissibili o “manifestamente infondate” nelle loro richieste d’asilo e quindi più vite sospese tra centri di detenzione, hub di ritorno e Paesi di origine che sicuri, nella pratica, continuano a non esserlo per tutti.

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