Tre salme, tre militari israeliani caduti e restituiti dopo settimane di trattative. Hamas ha consegnato i resti di tre ostaggi alle autorità israeliane, che ne hanno confermato l’identità attraverso gli esami autoptici. La notizia, diffusa ieri sera, ha scosso un Paese già segnato da mesi di incertezza e lutto. “Gli islamisti rispettino gli obblighi previsti dall’accordo”, ha dichiarato l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha però accusato il movimento palestinese di “ingannare il mondo con gesti propagandistici”.
Medio Oriente, le ferite del conflitto: Israele e Hamas tra scambi e rabbia sociale
La richiesta di Israele è chiara: restituire anche gli altri otto ostaggi dichiarati morti. Ma a Gaza la leadership di Hamas insiste nel definire ogni restituzione “parte di un processo umanitario”, mentre le trattative, condotte indirettamente dal Qatar e dall’Egitto, restano bloccate. L’equilibrio fragile tra diplomazia e scontro rischia di spezzarsi nuovamente, con effetti diretti sulla popolazione civile, ormai stremata da un anno di bombardamenti e restrizioni.
Lacerazioni interne e rabbia sociale in Israele
In Israele, la vicenda ha riacceso il dibattito politico interno. Le famiglie degli ostaggi hanno manifestato davanti alla Knesset, chiedendo un intervento più deciso del governo. Le proteste, pacifiche ma partecipate, riflettono un crescente malcontento sociale: da mesi il costo della vita è in aumento e la spesa militare ha prosciugato i bilanci pubblici, riducendo i fondi per sanità e istruzione.
Secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Haaretz, oltre il 60% degli israeliani ritiene che Netanyahu stia “trascinando il Paese in un conflitto senza prospettive politiche”.
La tensione si è ulteriormente acuita dopo l’arresto dell’ex procuratrice militare che aveva denunciato abusi dell’Idf su detenuti palestinesi. La donna, scomparsa per alcuni giorni, è stata fermata e poi rilasciata, ma il caso ha sollevato interrogativi sul rispetto delle libertà civili in tempo di guerra. “È un segnale inquietante”, ha commentato l’associazione Breaking the Silence, composta da ex soldati israeliani. “Si punisce chi chiede trasparenza, mentre la società si abitua all’idea di un’emergenza permanente”.
Gaza, tra macerie e sopravvivenza
Nella Striscia, la situazione umanitaria continua a peggiorare. Le organizzazioni internazionali parlano di un sistema sanitario al collasso e di oltre due milioni di persone dipendenti dagli aiuti. Le forniture di acqua potabile e di carburante restano intermittenti, mentre la disoccupazione ha raggiunto l’80%.
Le famiglie sfollate vivono in edifici semidistrutti, trasformati in rifugi improvvisati. “Abbiamo paura di uscire e di restare. Qui non c’è più niente”, racconta al telefono Mariam, una madre di tre figli di Khan Yunis. Le sue parole descrivono la quotidianità di una popolazione intrappolata tra la chiusura dei valichi e la mancanza di prospettive economiche.
Hamas, nel frattempo, cerca di mantenere il controllo del territorio attraverso una rete di comitati locali che distribuiscono cibo e medicine. Ma il consenso interno, secondo analisti regionali, è in calo. La crisi economica, aggravata dalle sanzioni israeliane e dalla riduzione dei fondi provenienti dal Golfo, sta erodendo le basi stesse del potere del movimento islamista.
Diplomazia in stallo e ombre sul futuro
L’accordo mediato dal Cairo per uno scambio più ampio di prigionieri appare in stallo. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea spingono per una tregua umanitaria più estesa, ma le differenze tra le parti restano profonde. Netanyahu ha promesso di “eliminare Hamas” e di “riportare a casa ogni israeliano”, mentre le autorità di Gaza continuano a presentarsi come difensori di un popolo sotto assedio.
Sullo sfondo, si muovono le economie della regione: il turismo in Israele è crollato del 40%, gli investimenti esteri si sono quasi dimezzati, e il costo dell’energia continua a crescere. In Cisgiordania, la disoccupazione giovanile sfiora il 50%, spingendo sempre più ragazzi verso la clandestinità o l’esilio.
La crisi non è solo militare o diplomatica: è una frattura sociale che attraversa due popoli e che rende ogni ritorno alla normalità un miraggio sempre più lontano.