Non serve molto tempo, bastano pochi minuti. Il Presidente della Repubblica scende in silenzio al Mausoleo delle Fosse Ardeatine, come ogni 24 marzo, da 81 anni a questa parte. Una corona, un inchino, un gesto lento della testa. I morti — 335 — sono lì, ognuno con il proprio nome inciso nella pietra, qualcuno senza. Una ferita collettiva ancora aperta. Un'eccellenza dell’orrore nazifascista che non ha bisogno di retorica, né di troppe parole. È un dolore che parla da solo, che affiora dai volti di marmo e dai nomi incisi nelle lapidi, che sale dal silenzio delle gallerie e dai passi misurati di chi scende in quella cava sacra.
Mattarella alle Fosse Ardeatine, in silenzio fra i martiri
Ma serve davvero questo rito alla memoria? E soprattutto: lo capiamo, davvero, il senso di questo sacrificio? Oppure lo viviamo come una pagina del calendario, una cerimonia da mandare in onda nei telegiornali prima del meteo, un dovere istituzionale da compiere con compostezza, ma senza domande? È sufficiente fermarsi una volta l’anno per dichiarare che ricordiamo? O stiamo progressivamente trasformando la memoria in un gesto automatico, svuotato di significato?
C’erano tutti oggi: il Capo dello Stato, il ministro della Difesa Guido Crosetto che ha atteso il Presidente all’ingresso, il presidente della Camera Lorenzo Fontana, la vicepresidente del Senato Licia Ronzulli, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, che si è recato sul posto in forma privata.
C’erano le massime autorità militari, civili e religiose. La comunità ebraica era rappresentata dalla presidente dell’UCEI Noemi Di Segni, dal presidente della comunità di Roma Victor Fadlun e dal rabbino capo Riccardo Di Segni. C’era il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, con la fascia tricolore, insieme a tanti altri sindaci. C’erano il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca e quello del Consiglio regionale Antonello Aurigemma, c’era anche il presidente del Municipio, Amedeo Ciaccheri. Un’Italia composta, presente, istituzionale.
Eppure, in quella stessa Italia, ce n’è un’altra che si nasconde. Quella che si distrae, che dimentica, che si annoia se si parla di antifascismo, che deride la Resistenza, che non vuole più sentire parole come “memoria storica” o “valori costituzionali”. Un’Italia che forse non sa, o forse fa finta di non sapere. Un’Italia che non ha mai sentito raccontare davvero cosa accadde in quel marzo del 1944, o che pensa che sia solo una questione del passato. Ma il passato, se ignorato, torna sempre a presentarsi con un volto diverso. E spesso più subdolo.
La verità, nuda e cruda, è che ricordare non basta. Ricordare è un verbo pigro se non è accompagnato da capire. Se non diventa esercizio quotidiano di coscienza civile. Se non ci scuote dal torpore dell’indifferenza e dalla comodità del presente. La memoria, da sola, rischia di diventare un atto estetico. Rischia di essere un fiore deposto ogni anno, senza che nessuno si domandi davvero perché.
Le Fosse Ardeatine non sono un luogo del passato, non sono solo un monumento alla morte. Sono un messaggio rivolto al presente. Un invito a vigilare. Qui, nella penombra delle gallerie scavate nella roccia, l’occupazione nazista e il collaborazionismo fascista si fusero in un unico atto di barbarie. Un eccidio ordinato con calcolo matematico: dieci italiani per ogni tedesco ucciso nell’attentato di via Rasella. Nessuna indagine, nessun processo, nessuna distinzione tra responsabili e innocenti. Solo un’operazione di terrore eseguita in fretta, con precisione disumana. Dentro quelle gallerie furono portati civili, ebrei, partigiani, militari inermi, persone scelte per puro caso. Una carneficina per riaffermare un dominio violento, un potere cieco.
Mattarella lo sa. E con la sobrietà che da sempre lo contraddistingue, non alza la voce. Non serve. Il suo silenzio, lì dentro, dice tutto. È un silenzio che parla, che guarda negli occhi ogni italiano e sembra dire: “Guardate. Imparate. Non dimenticate”. Non per dovere, ma per necessità. Perché dimenticare significherebbe essere complici. Perché non vedere significa permettere che si ripeta. E perché senza la memoria, la democrazia si svuota.
La memoria, se è solo un mazzo di fiori, è inutile. Se è solo un discorso istituzionale, è fiacca. Se non ci obbliga a chiederci da che parte staremmo oggi, in un altro tempo, in un’altra epoca, allora non serve. Se non ci mette a disagio, se non ci interroga nel profondo, se non ci spinge a educare le nuove generazioni, allora non è vera memoria. È solo forma. È solo apparenza.
Ricordare le Fosse Ardeatine non è solo un atto di pietà verso le vittime. È una responsabilità. È un impegno. È la richiesta, silenziosa ma potente, di trasformare quella tragedia in consapevolezza. Di scegliere ogni giorno, non una volta l’anno, da che parte stare. Di capire che la libertà non è gratuita, non è eterna, non è scontata. E che ci è stata consegnata a caro prezzo da chi, come quei 335 uomini, non ha avuto nemmeno il tempo di difendersi.
Le Fosse Ardeatine ci parlano ancora. E continueranno a farlo finché qualcuno avrà il coraggio di ascoltare. Sta a noi decidere se restare sordi o raccogliere quel messaggio. Sta a noi scegliere se vivere nella memoria o lasciare che si dissolva, giorno dopo giorno, nel rumore di una democrazia sempre più fragile.