Non è facile raccontare la storia di Maria Corina Machado, la donna venezuelana che oggi riceve il Premio Nobel per la Pace. Non è facile perché la sua vicenda personale si intreccia, da più di vent’anni, con la tragedia politica e umana del Venezuela. Una storia di coraggio e di isolamento, di resistenza e di ostinata fiducia in un futuro democratico che non è ancora arrivato.
Maria Corina Machado, Nobel per la Pace che ha sfidato regime e paura
Quando il Comitato norvegese del Nobel ha annunciato il suo nome, da Oslo, molti hanno pensato a una scelta simbolica: un modo per ricordare che anche in un Paese oppresso, dove la libertà di parola è un rischio quotidiano, la democrazia non è morta. Ma la verità è che questa scelta non è solo simbolica. È profondamente politica.
L’ingegnera che diventò il nemico del regime
Nata nel 1967 a Caracas, in una famiglia agiata e colta, Machado si forma come ingegnera industriale alla Universidad Católica Andrés Bello, una delle più prestigiose del Paese. Potrebbe intraprendere una carriera tranquilla, come molti dei suoi coetanei dell’élite caraqueña. E invece sceglie l’impegno civile.
Nel 2002, nel pieno dell’era Chávez, fonda Súmate, un’associazione che si occupa di monitorare le elezioni, di difendere il diritto di voto e di contrastare la manipolazione dei dati elettorali. È il primo vero atto di disobbedienza civica in un Paese in cui l’autoritarismo comincia a consolidarsi sotto la maschera della “rivoluzione bolivariana”.
Da quel momento, Machado diventa il volto dell’opposizione civile, la donna che non si piega.
Il potere la colpisce con ogni mezzo: viene accusata di “tradimento”, privata dell’immunità parlamentare, esclusa dalle elezioni, spiata, minacciata. Ma non arretra. Resta in Venezuela, anche quando molti scelgono l’esilio.
“Non mi serve l’immunità, mi basta la verità”
È una frase che Machado ha ripetuto più volte negli anni, e che oggi suona come un manifesto. La sua lotta non è mai stata quella del consenso facile o delle piazze incendiate. È una resistenza di parola, di memoria, di educazione civile.
Con il suo movimento politico, Vente Venezuela, ha costruito un laboratorio di democrazia dal basso, fatto di incontri, comitati, reti sociali, partecipazione.
Il Nobel per la Pace, si legge nella motivazione ufficiale, le viene assegnato “per il suo instancabile lavoro nel promuovere i diritti democratici del popolo venezuelano e per la sua lotta per una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia”.
È un riconoscimento che arriva dopo anni in cui il regime di Nicolás Maduro ha fatto di tutto per cancellarla dalla scena pubblica.
Il significato di un premio “scomodo”
Il nome di Maria Corina Machado circolava da settimane tra i candidati al Nobel, ma pochi credevano davvero che Oslo avrebbe avuto il coraggio di premiarla. Perché questo premio non è neutro. È una sfida diretta al potere di Caracas, ma anche a quella parte della comunità internazionale che, in nome della “realpolitik”, ha preferito tacere di fronte alle violazioni dei diritti umani in Venezuela.
È anche, inevitabilmente, una risposta indiretta a chi — come Benjamin Netanyahu — aveva auspicato che il premio andasse a Donald Trump per il cessate il fuoco a Gaza. Oslo ha scelto un’altra direzione: quella della coerenza morale, della difesa dei diritti civili, del coraggio silenzioso.
Una voce nel deserto
Oggi, mentre riceve il Nobel, Maria Corina Machado sa che nulla cambia davvero, almeno nell’immediato. Il Venezuela resta un Paese in ginocchio, dove otto milioni di cittadini sono emigrati e chi resta deve fare i conti con la censura e la miseria. Ma questo premio è una crepa nel muro del silenzio.
In questi anni, Machado ha parlato con i giovani che non hanno mai conosciuto un’elezione libera, con le madri che vivono di remesas inviate dall’estero, con i militari che cominciano a dubitare. Ha insistito sul fatto che la democrazia non si esporta, si costruisce, e che “la libertà non è un bene di consumo, ma una condizione dell’essere umano”.
Il coraggio di restare
Il gesto più politico di Maria Corina Machado non è stato fondare un movimento o organizzare proteste. È stato restare. Restare quando tutto suggeriva di fuggire. Restare quando i suoi collaboratori venivano arrestati, quando le sue campagne venivano oscurate, quando i voli per l’Europa sembravano l’unica via di salvezza.
Restare, per testimoniare che il Venezuela non è solo un Paese di crisi e di fuga, ma anche di dignità e resistenza.
Questo, più di ogni discorso, spiega perché oggi il mondo applaude una donna che da anni parla a una piazza svuotata e a un potere sordo.
E perché il suo Nobel pesa più di molti altri: perché nasce non da un tavolo di trattativa, ma da una solitudine condivisa con milioni di persone che non si rassegnano.
Maria Corina Machado non è solo una vincitrice. È una voce che ha attraversato il buio e, con la tenacia dei pochi che non si arrendono, continua a indicare un’alba possibile per il Venezuela.