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Partecipazione ai profitti, la legge c’è ma spacca il lavoro

- di: Jole Rosati
 
Partecipazione ai profitti, la legge c’è ma spacca il lavoro
Svolta simbolica dopo 77 anni: la Cisl esulta, Cgil e Uil parlano di “passo indietro”. Ecco cosa prevede davvero la norma.
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Una legge attesa da decenni, ma il mondo del lavoro si divide
Dopo 77 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, l’articolo 46 trova finalmente una sua traduzione legislativa. Con 85 voti favorevoli, 21 contrari e 28 astenuti, il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge sulla partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese. Ma quella che doveva essere una “pagina storica” – come la definisce trionfalmente la Cisl – si è trasformata in una frattura profonda nel mondo sindacale e nel dibattito politico.
A promuovere l’iniziativa è stata proprio la Cisl, oggi guidata da Daniela Fumarola (Foto), che ha raccolto quasi 400.000 firme in due anni. “Diamo finalmente corpo a un principio costituzionale rimasto inattuato per troppo tempo”, ha dichiarato la segretaria generale a margine del voto. “È il frutto di una lunga marcia di popolo”.
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Cosa prevede davvero la legge
Il testo approvato, frutto di pesanti revisioni in Parlamento, prevede la possibilità per i lavoratori di partecipare alla gestione delle imprese private, con alcune esclusioni significative: banche, società a partecipazione pubblica e aziende con sistema dualistico non sono tenute a introdurre rappresentanti dei dipendenti nei consigli di sorveglianza.
La novità più tangibile riguarda il trattamento fiscale. Per il 2025, la quota di utili distribuita ai dipendenti godrà di un’imposta sostitutiva del 5% fino a 5.000 euro (prima erano 3.000), a condizione che l’azienda destini almeno il 10% dei profitti ai lavoratori, nell’ambito di contratti collettivi aziendali o territoriali.
Inoltre, i dividendi legati a premi di risultato pagati in azioni saranno esentati dall’IRPEF per il 50%, entro un limite di 1.500 euro. Le microimprese con meno di 35 dipendenti potranno attivare forme di partecipazione tramite enti bilaterali.
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Sindacati spaccati: l’entusiasmo Cisl, la rabbia di Cgil e Uil
La divisione tra le sigle è netta. “Si cancella la contrattazione collettiva, sostituendola con una logica di subordinazione alle scelte aziendali”, ha denunciato Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil, in conferenza stampa. Sulla stessa linea Vera Buonomo (Uil): “Un passo indietro rispetto agli obiettivi iniziali. È una legge svuotata”.
Secondo i critici, la norma consegna troppo potere alle aziende, spostando il baricentro delle relazioni industriali dagli accordi collettivi agli statuti societari. I rappresentanti dei lavoratori, ad esempio, non saranno più garantiti nei consigli d’amministrazione, ma ammessi solo se previsti volontariamente dagli statuti, subordinatamente a quanto disposto dai contratti.
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Il governo rivendica la riforma, l’opposizione attacca
La ministra del Lavoro Marina Calderone ha parlato di “svolta importante” e di un “impegno mantenuto verso il mondo del lavoro”. Soddisfatta l’intera maggioranza: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si sono intestati il risultato come segno di attenzione verso i lavoratori e la produttività.
Il Partito democratico ha scelto l’astensione, denunciando uno “snaturamento” del disegno originale. “È una norma resa inefficace e potenzialmente dannosa”, ha detto la senatrice Valeria Fedeli in Aula.
Più drastici i giudizi del Movimento 5 Stelle e di Alleanza Verdi-Sinistra:Un maquillage normativo senza sostanza”, “i lavoratori non toccano palla”, hanno affermato rispettivamente i portavoce pentastellati e Angelo Bonelli.
Italia Viva, unica voce fuori dal coro tra le opposizioni, ha invece parlato di un “passo avanti”, pur con molte riserve.
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Una svolta più simbolica che reale?
L’approvazione della legge segna certamente un momento simbolico. Ma restano molti interrogativi sull’efficacia concreta del provvedimento. A pesare è soprattutto la natura opzionale della partecipazione gestionale e la sua esclusione da settori cruciali come il bancario e il pubblico.
Anche sul fronte fiscale, il beneficio – pur elevato a 5.000 euro – si applica solo in presenza di accordi aziendali avanzati e generosi. Per molte imprese, soprattutto nel Sud o nelle micro realtà, questi strumenti restano ancora lontani.
L’Italia rimane dunque lontana da modelli come quello tedesco, dove la co-determinazione è norma consolidata. Come osserva il giuslavorista Michele Tiraboschi (Università di Modena e Reggio Emilia), “questa legge è un primo passo, ma senza una riforma strutturale della contrattazione e un coinvolgimento reale delle rappresentanze sindacali, rischia di restare un guscio vuoto”.
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Molto rumore, poca sostanza?
La legge sulla partecipazione divide perché tocca un nodo cruciale del rapporto tra capitale e lavoro. Se da un lato rappresenta il riconoscimento di un principio costituzionale a lungo ignorato, dall’altro solleva dubbi sulla reale portata operativa.
Il suo futuro dipenderà dall’uso che ne faranno imprese e lavoratori. Ma il conflitto tra visioni – partecipazione come strumento di emancipazione o come forma di controllo aziendale – è tutt’altro che risolto. E la “pagina storica” rischia di restare una nota a margine.

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