Il futuro ce l’ha nella missione e nel DNA. Ha quasi 100 anni, ma per esistere ha bisogno di essere sempre giovane e un passo avanti agli altri.
Parliamo del CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche nato come Ente Morale il 18 novembre del 1923, con il Regio Decreto emanato da Vittorio Emanuele III e oggi fiore all’occhiello della ricerca in Italia.
Oggi infatti il Cnr, come maggiore ente di ricerca italiano, è presente in tutto il mondo, sia attraverso sedi, basi e infrastrutture collocate ovunque, fino alle estremità del pianeta, sia con un’intensa attività di accordi e collaborazioni con la maggior parte dei paesi del mondo.
Solo per citare qualche numero il CNR occupa più di 8.400 ricercatori (questo dato ne fa il più grande ente in Italia per numero di ricercatori ndr.), coordina 102 istituti di ricerca, ha 330 sedi secondarie e laboratori sul territorio e due basi di ricerca permanenti ai Poli.
Il CNR ha da quest’anno ripristinato una antica e pregiata attività: la relazione annuale sulla ricerca e l’innovazione in Italia. Il documento ha l’obiettivo di presentare al Governo, al Parlamento e all’opinione pubblica analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia.
Di futuro, di interrelazioni tra ricerca, società e crescita e della relazione annuale abbiamo parlato con il Vice Presidente del CNR, il prof. Tommaso Edoardo Frosini.
Professor Frosini, partiamo subito dalla relazione annuale. Che contributo vuole portare al dibattito pubblico su scienza, ricerca e innovazione?
L’apporto che cerca di dare questa Relazione è di uscire dagli stati emotivi o da casi specifici e di fornire, invece, statistiche che possano dare un più solido quadro specifico. Abbiamo fatto ampio uso di confronti internazionali, consapevoli che guardando la posizione dell’Italia a confronto con i suoi principali partner, ma anche rivali, dia una idea più chiara di quale sia la nostra attuale posizione.
Quali sono i dati di fatto più interessanti su cui ragionare?
La Relazione indica in dettaglio i problemi più volte enumerati tanto dentro che fuori l’accademia: il nostro paese investe poco in R&S, meno dei suoi concorrenti e in molti casi è addirittura tra i fanalini di coda dell’Unione Europea. Alcuni indicatori sono noti e spesso riproposti: per quanto riguarda il rapporto tra spesa per R&S e Prodotto Interno Lordo, l’Italia è passata dall’1,0 per cento del 2000 al 1,3 per cento del 2015; un piccolo aumento che la vede ancora in fondo alla classifica dei paesi europei. La spesa per R&S finanziata dal governo in percentuale al PIL è anch’essa rimasta stazionaria, e di poco superiore allo 0,5% del PIL. Si tratta di dati che è sempre opportuno ripresentare affinché chi prenda decisioni di politica economica possa decidere dove e come intervenire. Colgo l’occasione per segnalare anche un aspetto di parte: gli stanziamenti del MIUR agli Enti Pubblici di Ricerca sono calati sostanzialmente, dai 1.857 milioni del 2002 ai 1.483 milioni del 2015. Il CNR ha subito una riduzione dai 682 milioni del 2002 ai 533 milioni del 2015. Nonostante la diminuzione delle risorse, il sistema scientifico italiano dà segni di vitalità che spesso sorprendono gli analisti scientifici. Li abbiamo chiaramente segnalati in questa Relazione, a testimoniare che, nonostante le difficoltà, c’è un tessuto di conoscenza vitale e che potrebbe dare risultati importanti.
Ci sono delle cifre interessanti per confermare questa tendenza?
Certamente! A esempio, per quanto riguarda le pubblicazioni scientifiche, uno degli output principali della attività di Ricerca e Sviluppo, la contrazione degli input non ha (ancora?) ridotto il nostro contributo alla letteratura accademica internazionale. Dal 2000 al 2016 l’Italia è passata dal 3,2 al 4 per cento della quota mondiale, raggiungendo la Francia. Un risultato ancora più apprezzabile se si pensa che i paesi occidentali hanno visto la propria quota ridursi come conseguenza dell’affacciarsi nel panorama scientifico di paesi emergenti, primo tra tutti la Cina. La posizione dell’Italia è cresciuta particolarmente nella Biologia (che cresce dal 3,7% del 2000 al 4,5 % del 2016 del totale mondiale), nella Psicologia (dal1,7% al 2,9%) e nelle Scienze della terra (dal 3,6% al 4,9%). Non basta certo considerare la quantità delle pubblicazioni per dichiararsi soddisfatti; bisogna considerare anche la loro qualità. Anche la qualità media di queste pubblicazioni, misurata tramite le citazioni, è stata in continuo aumento dal 2000 in poi. Se poi si considerano le citazioni medie per articolo scientifico, l’Italia è oramai alla pari alla Germania e alla Francia, e molto vicina al Regno Unito.
Come sostenere negli anni futuri un sistema scientifico che, anche in condizioni avverse, dimostra vitalità?
I segnali sulla assai moderata crescita del personale di ricerca, la caduta dei dottori di ricerca dai più di 10 mila del 2007 ai meno degli 8 mila del 2016, destano ovviamente preoccupazione. C’è, in altre parole, il pericolo che se non sia adeguatamente sostenuto, il sistema ricerca possa implodere. Tenga in considerazione che l’analisi della relazione non si limita a considerare la ricerca del settore pubblico, che è quella che genera la grande maggioranza delle pubblicazioni scientifiche, ma si sofferma con uguale attenzione anche sulla ricerca e l’innovazione industriale. I dati di input dimostrano che c’è stata una progressiva erosione dell’investimento in ricerca industriale, anche a causa del continuo ridursi del finanziamento pubblico. Ne emerge che l’Italia dell’innovazione industriale continua ad arrancare. In tempi di crisi, il comparto pubblico e il comparto privato si sono sempre più “arroccati” al proprio interno, e i finanziamenti trasversali (ossia il finanziamento del settore pubblico alla ricerca delle imprese da una parte, e il finanziamento delle imprese alle università e agli enti pubblici di ricerca dall’altra) hanno perso di importanza. E’ un problema cruciale che dimostra che un sistema-paese della ricerca e dell’innovazione ha difficoltà ad emergere. Per rafforzare il sistema-paese in una relativa scarsità di risorse, serve invece una strategia esattamente opposta e che generi un numero crescente di interazioni proprio per moltiplicare l’impatto della conoscenza e il suo effettivo trasferimento nella vita economica e sociale.
… E dal punto di vista delle aziende private? Qual è la situazione?
Secondo me, notizie più confortanti provengono da quanto riescono a fare le imprese italiane nelle innovazioni non tecnologiche, come espresse nei design industriali comunitari registrati. Qui l’Italia ha un ruolo leader, e il numero di design comunitari registrati è secondo solo a quello della Germania. Viene, insomma, confermata la specializzazione produttiva italiana in settori ad alto contenuto di conoscenza e collegati ai settori tipici del Made in Italy (quali mobili e arredi, illuminazione, cucine), ma che non ricavano il proprio punto di forza dalla ricerca scientifica e tecnologica.
C’è una soluzione, o quanto meno delle indicazioni strategiche per invertire il trend e dare sviluppo a queste grandi capacità e know-how oggi “trattenute”?
La soluzione definitiva è difficile da intravedere e comunque necessita di una programmazione di lungo periodo.Però, a mio modesto parere nel breve e medio periodo è quanto mai necessario che l’Italia elabori una strategia di smart specialization, dove le risorse a disposizione, specie se nel prossimo futuro dovessero aumentare, siano messe a disposizione di settori strategici che, partendo dalle competenze già esistenti, si possano efficacemente innestare nel sistema produttivo. Ciò potrebbe avere l’effetto desiderato di spingere anche il settore delle imprese ad aumentare il proprio investimento in ricerca industriale al fine di utilizzare la conoscenza pre-competitiva generata dalle Università e dagli Enti Pubblici di Ricerca.
Abbiamo parlato prevalentemente di innovazione e quindi dell’impegno del CNR per il settore della crescita industriale e aziendale. C’è anche però la componente delle scienze sociali sulla quale il CNR è altrettanto impegnato.
E’ vero. La ricerca scientifica non è solo quelle delle scienze cd. “dure”, vi è anche il contributo, altrettanto significativo, delle scienze umane e sociali. Il CNR coltiva molto questi interessi, nella consapevolezza che occorre creare sempre maggiori forme di interdisciplinarietà, come peraltro aveva individuato già Vito Volterra, il grande fisico che fu il primo presidente del CNR. Oggi più di ieri la ricerca non ha frontiere, i saperi si devono mescolare per trovare nuove ed efficaci soluzioni. E quindi l’informatico si deve confrontare con il giurista così come lo scienziato agroalimentare deve interagire con l’economista ovvero con il sociologo e così via. Direi, anzi, che questa è la vera mission del CNR: sapere valorizzare tutti i campi del sapere umano e scientifico per farli dialogare fra loro. Ogni scoperta, ogni brevetto che nasce nei laboratori e negli istituti del CNR è frutto di una condivisione di conoscenze, che trovano poi specifica applicazione in un determinato settore. Siamo l’unico ente di ricerca nazionale che è in grado di organizzare e mettere in rete, come oggi usa dire, l’intero mondo della ricerca scientifica, che lavora in maniera coesa per dare un valido contributo alla crescita e allo sviluppo del Paese.