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Renato Fontana: "La cultura visiva è un remix e un gioco di citazioni continuo"

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Renato Fontana: 'La cultura visiva è un remix e un gioco di citazioni continuo'

Un’intervista con Renato Fontana, esperto di cultura visiva, docente universitario e fondatore di Italianism, non è mai solo una conversazione: è un attraversamento. Delle forme, dei linguaggi, delle contraddizioni del presente. È da questa attitudine riflessiva che nasce Millennium Mind, il progetto lanciato da HDRÀ per esplorare i cambiamenti radicali che hanno investito la comunicazione, l’arte e la creatività negli ultimi venticinque anni. In questo dialogo, Fontana ci guida in un percorso che parte dalla contaminazione tra discipline e sottolinea l’accelerazione del processo, passando per l’immersione totale nell’universo digitale.

Renato Fontana: "La cultura visiva è un remix e un gioco di citazioni continuo"

Professore Fontana, il concetto di ibridismo sembra attraversare tutto ciò che accade oggi nel mondo creativo. Come lo interpreta?
Lo definirei il segno dei tempi. Siamo ben oltre l’interdisciplinarità: non ci troviamo più davanti a discipline separate che dialogano alle volte tra loro, ma a una nuova configurazione in cui le frontiere si sono dissolte e la metodologia non rappresenta un’eccezione. Un architetto oggi può partire da un’esperienza musicale per progettare un edificio, un fashion designer può studiare la semiotica o la filosofia, un artista pop è quasi obbligato a parlare il linguaggio professionale di nuove figure, ormai indispensabili, come stylist e make up artist. È un campo mobile, in continua trasformazione. L’ibridismo, in questo senso, non è una somma di fattori ma un nuovo modo di concepire la creatività.

È un paradigma che sembra riflettere anche la sua esperienza personale e il progetto Millennium Mind.
Esattamente. Con Millennium Mind abbiamo voluto mettere in campo una riflessione ampia e collettiva sulla trasformazione della cultura visiva e comunicativa negli ultimi venticinque anni. È stata l’occasione per interrogarsi sul ruolo che la comunicazione ha assunto nella nostra vita: non solo come strumento, ma come infrastruttura del pensiero, del sentire, del fare. E per farlo serviva costruire uno spazio aperto, dove idee, tecnologie, sensibilità potessero contaminarsi. Nel quale abbiamo fatto confluire 25 nomi per 25 storie di cambio di paradigma. Non tutti noti allo stesso livello di notorietà, ma per noi ugualmente significativi.

Ha citato spesso Virgil Abloh, che paragonava la creatività al lavoro del DJ. Cosa significa, oggi, essere creativi?

Significa, come diceva Abloh, conoscere molte cose differenti tra loro e saper selezionare, combinare, remixare. Viviamo in una condizione di sovraccarico informativo e visivo. La creatività non è più legata alla purezza dell’origine, ma alla capacità di creare connessioni. Si parte da frammenti, da suggestioni eterogenee, e si cerca un ordine provvisorio. Il remix non è una tecnica: è un pensiero. Anche Steve Jobs era solito definire la creatività con quell’ espressione meravigliosamente sintetica che è “Connecting Dots”.

Un pensiero che si sviluppa in un ambiente sempre più digitale. Come cambia la percezione del reale?
In modo profondo. Oggi convivono, nella stessa esperienza, la realtà concreta e quella astratta. Non è più solo questione di rappresentazione: la nostra identità è distribuita, molteplice, in parte agita nel quotidiano e in parte filtrata attraverso lo sguardo degli altri, online. La cultura digitale non è un contenitore: è un ambiente in cui siamo immersi senza soluzione di continuità. Non c’è più distinzione tra on e offline, tra vissuto e rappresentato. Soprattutto per la Generazione Z.

È un processo che inquieta, per certi versi. C’è chi parla di disorientamento culturale.
Ed è legittimo. Ogni rivoluzione, dalla stampa alla rivoluzione industriale, ha prodotto scarti, squilibri, resistenze. Quella che stiamo vivendo oggi è una rivoluzione cognitiva e sensoriale. Non credo sia utile lasciarsi andare alla paura o al determinismo. Citando Umberto Eco, è più utile essere né apocalittici né integrati, ma analitici. Il nostro compito, soprattutto se operiamo nella comunicazione, è comprendere i fenomeni, non giudicarli in anticipo o stigmatizzarli senza possibilità di replica.

A proposito di rivoluzioni: come entra in gioco l’intelligenza artificiale?
L’intelligenza artificiale è una sfida formidabile. Non parlo solo della sua applicazione tecnica, ma della sua potenzialità poetica. Penso, per esempio, al lavoro dell’artista Refik Anadol: la sua arte è frutto di un dialogo continuo tra uomo e macchina, tra algoritmo e visione. L’AI non è un’entità esterna che sostituisce l’autore. È un partner, un co-autore, un’estensione della sensibilità umana. È da questo incontro che può nascere una nuova estetica. Soprattutto in funzione del fatto che Anadol considera i dati come qualcosa che va al di là dei numeri e comprende immagini, informazioni, elementi attinenti allo spazio circostante o legati ai sensi.

Che tipo di risposta ha avuto Millennium Mind?
Molto positiva. È emersa la voglia di fermarsi a pensare, di tornare a ragionare sul senso profondo del nostro lavoro e su quanto le vite, i media e i device degli ultimi 25 anni siano mutati. Anche in un’agenzia come HDRÀ, che opera nel cuore della comunicazione, c’è la consapevolezza che non si può semplicemente “comunicare bene”. Occorre domandarsi perché comunichiamo, a chi ci rivolgiamo, che tipo di immaginari stiamo alimentando. E, in questa direzione, è opportuno tornare a porsi qualche macro domanda etica.

Che cosa si augura per il futuro del progetto?
Che Millennium Mind diventi un laboratorio permanente. Non un evento isolato, ma un punto di partenza. Un’occasione per chi lavora nella comunicazione, nella cultura, nell’arte, di interrogarsi insieme sul presente. E magari di inventare, insieme, nuovi linguaggi e fornire serie chiavi di interpretazione per gli addetti ai lavori.

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