Governo: Conte cede ai pasdaran dei Cinque Stelle, Draghi andrà al Quirinale
- di: Redazione
Una delle regole auree della politica italiana, di quelle scritte sulla pietra e, quindi, incancellabili, è che mai si deve cedere alle ali estreme di un partito, cercando invece di mediare tra posizioni contrapposte. Perché, in fondo, la politica è la mediazione elevata ad arte. Ma essendo Giuseppe Conte digiuno di politica, vantando la sua estrazione culturale di giurista e non invece di ''professionista'' del ramo, non deve sorprendere che, alla fine, abbia dovuto soccombere a chi, dentro il suo partito, lo strattonava con maggiore forza, a chi urlava piuttosto che esprimere con pacatezza le sue idee. E quindi oggi i Cinque Stelle, non votando la fiducia al governo di cui sino a ieri facevano parte, ufficializzeranno lo strappo con quella che era la coalizione.
I Cinque Stelle non voteranno la fiducia al governo
Una scelta nell'aria perché era abbastanza chiaro che alla fine avrebbero prevalso le tesi di chi, sostenendo che bisognava tornare al passato barricadero, che era necessario riassaporare il gusto dell'opposizione, si batteva per abbandonare Mario Draghi al suo destino. La sintesi più efficace dei pensieri che hanno animato la fronda al presidente del consiglio viene, anche oggi, dall'editoriale del giornale-faro dei Cinque Stelle, in cui Conte viene descritto, per l'ennesima volta, come la sintesi del buon governo e Draghi come il peggio del peggio, che ha distrutto quello che il presidente dei Grillini aveva mirabilmente fatto.
Anche nelle ore convulse di ieri Conte è apparso, per l'ennesima volta, tentennante, forse accorgendosi che l'ala massimalista del suo movimento, con i proclami a raffica, stava vanificando anche le più flebili speranze di essere ancora determinanti, agendo dentro il Palazzo e non essendone testimoni, come accadrà da domani.
Non crediamo sia il caso di soffermarci su queste che sono schermaglie di un modo di fare politica che non porta da nessuna parte, che serve solo ad esacerbare gli animi di chi non sa distinguere le cose sensate e ponderate da quelle dette sulla spinta delle sole emozioni. Ma la parabola di governo dei Cinque Stelle merita di essere analizzata perché simboleggia plasticamente come sia stato possibile disperdere, come polvere in una tempesta di sabbia, un enorme patrimonio di voti e consensi, al netto di una assenza sostanziale di un programma.
Se a guidare i Cinque Stelle fossero state persone aduse al confronto con l'esterno e non invece a declamare apoditticamente la propria superiorità genetica ('noi siamo gli onesti, voi i ladri') oggi forse non saremmo alla vigilia di una crisi che, fino a ieri, nessuno diceva di volere, ma che era nei fatti.
Draghi, davanti alla defezione di una componente importante della maggioranza di governo, non può che imboccare la strada verso il Quirinale per confrontarsi con il capo dello Stato, che ha sempre dimostrato di essere molto prudente davanti all'ipotesi di scioglimento delle camere e voto anticipato.
Ma la realtà è troppo evidente per essere negata o ignorata.
Il governo, con il suo format da ''unità nazionale'', è ormai inesistente e Draghi e Mattarella dovranno, insieme, trovare il modo di rendere la fine politica dell'esecutivo meno devastante di quello che ci si aspetta. Anche perché, se è vero che dopo la scissione in seno ai Cinque Stelle, promossa da Luigi Di Maio, i numeri ci sono ancora, è il progetto ad essere stato irrimediabilmente azzoppato.
Comincia da oggi il conto alla rovescia per il parlamento, che potrebbe essere a scadenza naturale (primavera 2023) o essere sciolto molto prima. Di certo c'è che appare assolutamente incomprensibile capire non quali siano state le ragioni dello strappo grillino, ma se in casa Cinque Stelle abbiano capito quel che accadrà al loro movimento.
Ovvero se hanno compreso che il loro disimpegno, uscendo dalla stanza dei bottoni, alla fine sarà un grosso regalo, ad esempio per chi vuole modificare sostanzialmente (o addirittura cancellare) il reddito di cittadinanza, che Draghi aveva detto di volere difendere come idea, non nel modo in cui viene elargito con troppa liberalità. Perché con i Cinque Stelle fuori, Lega e Forza Italia potranno dare pollice verso all'Rdc senza che dentro il governo ci sia chi difenda la misura ritenendola la sublimazione perfetta delle loro politiche. E questo accadrà anche per il controverso Dl che, concedendo ampi poteri al sindaco di Roma, spianerà la strada alla costruzione del termovalorizzatore, fortemente osteggiato dai Cinque Stelle.
Che sembrano avere memoria corta quando, per bocca di Giuseppe Conte, lamentano che a Gualtieri saranno conferiti poteri che erano stati negati a Virginia Raggi, che però era sindaco della Capitale quando a Palazzo Chigi sedeva l'attuale presidente grillino. Per la serie: tutto è lecito pur di fare polemica, anche interpretare la realtà dei fatti.
Andandosene via dalla maggioranza di governo, Conte e i pasdaran grillini sperano forse di recuperare parte del loro elettorato originario che però, negli anni, li ha abbandonati non per una revisione ideologica, ma perché il movimento ha infilato una serie così lunga di dietro-front e cambi di direzione da sbandare anche il più convinto dei loro sostenitori.