La tregua nata a Sharm el Sheikh aveva qualcosa di provvisorio sin dall’inizio. Un’idea più che un accordo: smettere di colpire per guadagnare tempo, mettere in salvo ostaggi, far passare camion di aiuti, convincere l’opinione pubblica che una finestra di margine, in questa guerra a spigoli vivi, fosse ancora possibile. Ma sul terreno, la polvere degli ultimi bombardamenti non si è ancora abbassata quando già si torna al punto di partenza.
Gaza, tregua appesa a un filo: i raid di Israele riaccendono la paura
Nella notte, i jet israeliani hanno sorvolato Rafah e Khan Yunis più volte, lasciando dietro di sé colonne di fumo e il consueto bilancio divergente: “operazioni mirate” per l’Idf, “almeno 50 vittime civili” secondo i responsabili sanitari della Striscia. Il raid è stato disposto su ordine diretto del premier Netanyahu, dopo un attacco contro reparti dell’esercito israeliano al confine sud. A monte: accuse reciproche di aver violato la tregua e lo scambio di messaggi sempre più rigidi, quasi protocollari, fra mediatore e mediati.
Il nodo ostaggi, il punto più delicato
Poi c’è il capitolo più sensibile: gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. L’organizzazione islamista ha fatto sapere di aver “trovato” i corpi di due prigionieri israeliani, Amiram Cooper e Sahar Baruch. Un annuncio che pesa, perché sposta l’asse: da una partita diplomatica che puntava allo scambio vivo, si torna all’arma simbolica dei cadaveri restituiti (o minacciati). Nei corridoi delle capitali che stanno provando a cucire la tregua, il messaggio è stato letto come una sfida e un ultimatum insieme: o si accelera, o il negoziato implode.
Washington e Europa, due registri diversi
Il primo commento forte è arrivato dagli Stati Uniti, ed è suonato più politico che diplomatico. Donald Trump, tuona: “Israele ha diritto a rispondere ad Hamas”. Parole che, a Gerusalemme, valgono come copertura politica in uno dei momenti più tesi dall’inizio del cessate il fuoco.
In Europa il registro è diverso. Roma, attraverso la voce del ministro degli Esteri Antonio Tajani, prova a frenare gli strappi: «La tregua va rafforzata da tutti, non indebolita». Sul tavolo di Bruxelles resta una domanda: se questa finestra di sospensione salta, chi sarà credibile domani nel chiedere un nuovo stop ai bombardamenti?
La Striscia senza respiro
Intanto dentro Gaza la tregua logorata non ha mai significato normalità. Gli ospedali sono rimasti mezzi funzionanti, i corridoi umanitari intermittenti, la vita quotidiana una sequenza di attese e improvvise corse al riparo. Ogni notte di sorvolo a bassa quota è un promemoria: qui niente è davvero sospeso, e tutto può ricominciare.
Gli operatori umanitari avvertono che un ritorno alla guerra piena sarebbe devastante: non ci sono più margini logistici per evacuazioni su larga scala, né per riallestire centri di accoglienza già saturi. Il rischio non è più l’emergenza, ma il collasso definitivo.
L'ultimo miglio della diplomazia
Al Cairo i mediatori provano a tenere la porta aperta. Ma sono rimasti centimetri, non metri. Senza un gesto politico forte — da una parte o dall’altra — la pace armata rischia di scivolare nella retorica già vista: tregue che si consumano più velocemente delle firme che le sostengono.
La sensazione, tra gli inviati sul campo, è che stia arrivando il momento della scelta. Continuare a mediare mentre le bombe cadono, oppure accettare che il compromesso non regge più. In questo frammento di territorio assediato, e nel suo fragile margine di respiro, si decide una parte cruciale degli equilibri regionali. Ma l’orologio, anche stavolta, corre più veloce della diplomazia.