Verso l'elezione diretta del premier

- di: Tommaso Edoardo Frosini
 
Uno dei principali temi nell’agenda politica della maggioranza di governo è il presidenzialismo. Lo si evoca sempre nei dibattiti pubblici e istituzionali, seppure ancora non è chiaro quale presidenzialismo si vorrebbe per l’Italia. Quello americano? Oppure quello francese, che è semipresidenziale? Altrimenti un nuovo sistema di governo, che qui mi proverò a delineare. Ovvero il “premierato elettivo” quale proposta concreta, che oggi sembra trovare consensi nella maggioranza politico-parlamentare e in una parte dell’opposizione. È una delle tre ipotesi di riforma della forma di governo, perché le altre due sono il presidenzialismo e il semipresidenzialismo. Tutte e tre le ipotesi hanno un minimo comune denominatore: l’elezione diretta del vertice istituzionale (capo dello stato o di governo), con conseguente valorizzazione del principio di sovranità popolare, da intendersi come fonte da cui si legittima democraticamente il potere.

Verso l'elezione diretta del premier

Certo, ci sono delle differenze, che non sono di poco conto: presidenzialismo vuol dire elezione diretta del capo del governo che è anche capo dello stato; semipresidenzialismo, invece, è elezione a suffragio universale del capo dello stato, che non è capo del governo; premierato vuol dire rafforzamento del capo del governo, legittimato dal voto degli elettori, con un Presidente della Repubblica potere neutro e garante costituzionale. Questi sono i punti fermi da cui occorre partire, per chiarire meglio alcuni aspetti.

Il problema costituzionale italiano è il governo; non certo il Presidente della Repubblica, che funziona benissimo nel suo ruolo di garante. Un governo che da oltre dieci anni, ovvero da Mario Monti in poi, non ha mai avuto un presidente del consiglio che fosse espressione di una indicazione elettorale da parte dei cittadini. Questo sistema ha favorito una disaffezione elettorale, perché i cittadini non sono stati messi in condizione di conoscere da chi sarebbero stati governati. Questo sistema ha consentito il formarsi di più governi nella stessa legislatura, addirittura con maggioranze politiche diverse. Questo sistema ha prodotto ancora di più l’ingovernabilità. Fatta eccezione per il periodo 2001-2006, con il governo presieduto da Silvio Berlusconi, che è durato l’intera legislatura, riconducibile a una forma di governo del premierato non elettivo piuttosto su indicazione degli elettori, attraverso il nome del candidato sulla lista della coalizione e quindi sulla scheda elettorale e, soprattutto, con il concorso di un sistema elettorale maggioritario, che favorì l’affermarsi di un sistema politico bipolare con i rispettivi leader (Silvio Berlusconi e Romano Prodi) candidati alla guida del governo.

Con la nomina di Giorgia Meloni a presidente del consiglio, quale leader della coalizione politica che ha vinto le elezioni, si è tornati a essere una democrazia come quelle europee, dove gli elettori sanno chi sarà il loro capo del governo, in base all’esito delle elezioni politiche. Sarebbe opportuno muoversi sulla scia di questa affermazione istituzionale, unitamente a quanto gli italiani fanno da trenta anni per eleggere il sindaco nei comuni (l. n. 81 del 1993) e da oltre venti anni per eleggere il presidente di regione (l. cost. n. 1 del 1999, poi ratificata in tutti gli statuti regionali). A livello locale e territoriale, infatti, i cittadini votano ed eleggono il capo del governo, insieme a una maggioranza espressione delle forze politiche che lo sostengono, grazie a un sistema elettorale che permette di premiare le liste collegate al candidato vincente.

Allora, perché nei governi decentrati c’è elezione diretta del vertice dell’esecutivo e a livello nazionale no? Si tratta di uno strabismo istituzionale, che andrebbe corretto con delle nuove lenti costituzionali. Anche perché appare paradossale attribuire agli elettori il voto per il governo a livello periferico e sottrarglielo, a quegli stessi elettori, a livello centrale. Non è un automatismo, visto che c’è lì ci deve essere qui, è piuttosto un pieno riconoscimento del ruolo del corpo elettorale, al quale appartiene ed esercita la sovranità popolare, come soggetto responsabile della scelta della rappresentanza politica e di governo.

La proposta già più volte da me avanzata in altre sedi, è quella di codificare in costituzione l’elezione diretta del primo ministro. Emulando così il sistema del premierato britannico, che deve però tradursi in una norma della costituzione scritta (a differenza di quella britannica, che invece scritta non è). Sappiamo bene, infatti, che in Gran Bretagna vi è una constitutional convention non derogabile né eludibile: è quella che vuole premier il leader del partito che vince le elezioni, così che gli elettori votano per il partito, nei collegi uninominali, sapendo così di votare anche per il premier.

Si tratta di una forma di governo che rafforzerebbe la figura e il ruolo del capo del governo, il quale sarebbe l’effettivo titolare dell’indirizzo politico, con alcune prerogative costituzionali, quali il potere di scioglimento anticipato delle Camere e la revoca dei ministri. E con un Presidente della Repubblica, immutato nel suo ruolo e nelle sue prerogative, quale potere neutro e garante della costituzione. Il capo del governo dovrebbe essere sostenuto da una maggioranza parlamentare, espressione di un sistema elettorale che premia, con meccanismo maggioritario, la lista o le coalizioni di liste che sostengono il candidato primo ministro.

Ed eventualmente, ma non necessariamente, con la clausola, già presente a livello locale e regionale, del cd. simul stabunt simul cadent, e cioè che governo e parlamento nascono e cadono insieme. Pertanto, se le Camere sfiduciano il governo si autosciolgono, in modo che si possa tornare alle urne per eleggere nuovamente governo e parlamento. Altrimenti, si può prevedere il voto di “sfiducia costruttivo”, in cui, cioè, il parlamento può sfiduciare il capo del governo a condizione che lo sostituisca con un altro, fermo restando immutata la maggioranza politica e quindi parlamentare voluta dagli elettori.

Questa soluzione, se da un lato potrebbe dare al parlamento un ruolo comunque decisionale, posto che, comunque, il governo deve avere la fiducia del parlamento; dall’altro lato finirebbe però con indebolire la legittimazione elettorale del primo ministro, dal momento in cui ci sarebbe un altro capo del governo, che non fosse più espressione del voto diretto degli elettori. Insomma, luci e qualche ombra. Un governo scelto dal popolo per un governo di legislatura. Non è presidenzialismo ma neo-parlamentarismo. Ovvero un’evoluzione del sistema parlamentare, di cui conserva il rapporto fiduciario, che si sviluppa nel senso di garantire stabilità e restituire centralità alla sovranità popolare. Per avere governabilità senza comprimere la rappresentanza.
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