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Deficit Usa giù in agosto, ma il rosso record resta

- di: Marta Giannoni
 
Deficit Usa giù in agosto, ma il rosso record resta

L’effetto dazi gonfia il dato di agosto ma non risolve il problema.

(Foto: Donald Trump con la prima, strampalata e strumentale tabella per giustificare i dazi americani verso il mondo).

Ad agosto il deficit commerciale degli Stati Uniti ha registrato un calo spettacolare, scendendo a circa 59,6 miliardi di dollari dopo i quasi 80 miliardi del mese precedente. Il disavanzo si è ridotto di quasi un quarto nel giro di trenta giorni, nel momento in cui sono entrati a pieno regime i nuovi dazi generalizzati voluti da Donald Trump su un’ampia gamma di beni importati. A prima vista, sembra il trionfo della linea protezionista: meno merci straniere, saldo meno profondo, un contributo positivo al prodotto interno lordo.

Dietro la fotografia di un singolo mese, però, la storia è ben diversa. Nei primi otto mesi del 2025 gli Stati Uniti hanno accumulato un disavanzo complessivo in beni e servizi che sfiora i 714 miliardi di dollari, circa un 25% in più rispetto allo stesso periodo del 2024. Il “miracolo” di agosto arriva insomma su uno sfondo di rosso strutturale che i dazi non hanno cancellato, ma solo deformato nel tempo e nella composizione degli scambi.

Importazioni in frenata, esportazioni quasi ferme

Il meccanismo è chiaro nei numeri. Ad agosto le importazioni di beni e servizi degli Stati Uniti sono diminuite di circa il 5%, attestandosi intorno a 340 miliardi di dollari, dopo i picchi di luglio quando molte imprese avevano anticipato gli acquisti dall’estero per sfuggire all’entrata in vigore delle nuove tariffe.

Le esportazioni, invece, si sono mosse appena, con un incremento di circa lo 0,1% poco sopra i 280 miliardi. In altre parole, il miglioramento del saldo non nasce da una ritrovata competitività del made in Usa, ma da un freno sulle importazioni, provocato dal rialzo dei dazi e dall’incertezza sulle regole del gioco.

Guardando ai dettagli, il calo ha colpito soprattutto beni industriali, beni di consumo e capital goods. In alcuni segmenti – dall’oro non monetario ai beni durevoli per la casa – l’altalena è stata particolarmente violenta: corsa agli acquisti nei mesi precedenti, brusca frenata dopo l’inasprimento delle tariffe. È il segno di una catena globale del valore che si adatta, almeno sul breve periodo, più con scatti e frenate che con una marcia lineare.

Il Pil ringrazia, ma la spinta è dopata

Per la contabilità nazionale americana, una riduzione del disavanzo commerciale è una buona notizia: la crescita del Pil misura la domanda di beni e servizi prodotti all’interno del Paese, quindi meno import significa un contributo aritmetico positivo al dato trimestrale.

“Un deficit commerciale più contenuto nel mese di agosto tende a rafforzare il Pil reale del terzo trimestre, perché una quota maggiore della spesa interna si è riversata su beni e servizi domestici anziché su prodotti importati”, osserva Bill Adams, capo economista di una grande banca statunitense, sottolineando come il commercio estero possa spostare sensibilmente le stime di crescita in un contesto già fragile.

Le simulazioni diffuse da diversi centri di analisi convergono su una crescita intorno al 2-3% annualizzato nel terzo trimestre, con il canale commerciale che offre una spinta decisiva dopo i segnali di rallentamento arrivati dal mercato del lavoro e dai consumi. Ma è una spinta che molti economisti considerano “dopata”: nasce da un shock di policy che ha alterato il timing degli scambi, non da un aumento strutturale di produttività o di export.

Un dato in ritardo, figlio dello shutdown federale

A rendere il quadro ancora più particolare c’è il contesto istituzionale. Il rapporto sul commercio estero di agosto è arrivato con oltre sei settimane di ritardo, a causa di un lungo shutdown del governo federale che ha paralizzato per oltre un mese gli uffici statistici a Washington. Il mercato si è trovato così a discutere dati vecchi di quasi tre mesi, proprio mentre l’economia reale aveva già iniziato a reagire a dazi, tassi d’interesse in discesa e tensioni politiche.

Il ritardo ha alimentato ulteriore incertezza: investitori e imprese hanno dovuto navigare al buio mentre si accumulavano segnali contrastanti su consumi, occupazione e inflazione. La fotografia del trade è arrivata soltanto dopo che la banca centrale aveva già deciso nuovi tagli dei tassi per sostenere la crescita.

Anno 2025: deficit più alto nonostante la guerra dei dazi

Se si allarga lo sguardo all’intero 2025, il messaggio che arriva dai numeri è netto. Nei primi otto mesi dell’anno, il deficit complessivo in beni e servizi è aumentato di oltre 140 miliardi di dollari rispetto allo stesso periodo del 2024. Le esportazioni sono cresciute, ma le importazioni hanno accelerato ancora di più, complice la domanda interna sostenuta e il peso delle catene globali del valore che continuano a passare per l’estero.

Analisi recenti sul legame fra disavanzo fiscale e deficit commerciale ricordano che il buco negli scambi con il resto del mondo è lo specchio di uno squilibrio interno: un Paese che spende (Stato, famiglie, imprese) più di quanto produce e risparmia, inevitabilmente importa capitali e beni dall’estero e registra un disavanzo nella bilancia dei pagamenti.

“Finché il bilancio pubblico resta fortemente in deficit e la propensione al risparmio delle famiglie non risale, è illusorio pensare che bastino i dazi a chiudere il gap commerciale”, sintetizza un economista di un centro di ricerca sul commercio internazionale, mettendo in fila il paradosso di una politica che colpisce merci e partner ma non affronta le cause interne del disavanzo.

Tariffe, inflazione e consumatori sotto pressione

I dazi non hanno solo effetti macro sul Pil. Si sono tradotti anche in un rialzo dei prezzi al consumo in diversi comparti: elettronica, beni per la casa, auto, alimentari. Le imprese importatrici, strette fra costi più alti e bisogno di salvaguardare i margini, hanno in molti casi scaricato almeno una parte delle tariffe sui listini finali.

La combinazione di costo della vita elevato, salari reali in affanno e incertezza politica ha inciso sull’umore dell’elettorato. Di fronte al malcontento più forte su beni primari come cibo e prodotti agricoli, la Casa Bianca è già stata costretta a fare parziali marce indietro, alleggerendo alcune tariffe su alimentari e agroindustria per smussare lo scontro con famiglie e grande distribuzione.

Il risultato è un sistema di tariffe a geometria variabile, dove alcuni settori continuano a subire aumenti pesanti, altri vengono temporaneamente esentati, altri ancora restano sospesi nell’incertezza. Per imprese e catene logistiche, programmare investimenti e forniture in un contesto del genere diventa un esercizio ad alta volatilità.

La partita legale e il rischio instabilità

La strategia tariffaria non è solo un tema economico, ma anche istituzionale. Una parte consistente dei dazi è stata introdotta facendo leva su dichiarazioni d’emergenza nazionale, un uso estensivo dei poteri dell’esecutivo che ha sollevato dubbi e ricorsi. Alcuni giudici e giuristi contestano che, in assenza di un vero conflitto o di una crisi improvvisa, un governo possa riscrivere da solo l’architettura commerciale costruita in decenni di negoziati.

Le cause in corso davanti alle corti superiori, e il dibattito sulla legittimità di questo approccio, aggiungono un ulteriore strato di incertezza regolatoria: le aziende non sanno se le tariffe resteranno in vigore, verranno ampliate o saranno smantellate a colpi di sentenze. Per gli investitori internazionali, è un segnale di instabilità che pesa sulle decisioni di medio periodo.

Perché i dazi non bastano a cambiare la bilancia commerciale

Alla base delle critiche più dure c’è un punto di economia di base: il saldo commerciale riflette l’equilibrio complessivo fra risparmio e investimento in un Paese. Se lo Stato spende molto più di quanto incassa e le famiglie non aumentano il risparmio, il sistema economico nel suo complesso deve importare risorse dall’estero. Il deficit commerciale è il rovescio di questo flusso di capitali.

In questo quadro, i dazi possono spostare flussi fra settori e partner, possono costringere le imprese a riorganizzare le filiere, possono fare salire i prezzi e ridurre i volumi di scambio. Quello che non riescono a fare, da soli, è colmare un gap strutturale alimentato da un deficit di bilancio cronico e da un modello di crescita centrato sulla domanda interna più che sulle esportazioni.

“È un’illusione pensare che si possa riscrivere la bilancia commerciale soltanto alzando muri doganali”, riassume un altro analista. “Finché l’economia americana continuerà a vivere al di sopra dei propri mezzi, il disavanzo con il resto del mondo resterà elevato, anche se i numeri mensili faranno a volte sembrare il contrario”.

Un agosto che dice molto sul futuro dell’economia americana

Il dato di agosto 2025 resterà probabilmente come uno dei simboli della stagione dei dazi: un mese in cui il deficit scende bruscamente, le importazioni si contraggono, il Pil beneficia del contributo del canale estero e la politica rivendica un successo immediato.

Ma l’analisi dell’intero anno racconta un’altra verità: l’America continua a vivere con un disavanzo commerciale più alto di quello del 2024, nonostante la guerra tariffaria. Le esportazioni non hanno compiuto il salto di qualità che qualcuno prometteva, le catene globali del valore si sono adattate con percorsi alternativi, i consumatori hanno pagato parte del conto sotto forma di prezzi più alti.

Per correggere davvero gli squilibri servirebbe una strategia più ampia: politiche di bilancio più sostenibili, incentivi agli investimenti produttivi, piani di lungo periodo su innovazione, formazione e transizione energetica. I dazi possono creare qualche mese di statistiche utili da esibire in conferenza stampa. Non bastano, però, a cambiare la traiettoria profonda di un’economia che resta, numeri alla mano, stabilmente in rosso sul fronte del commercio con il resto del mondo.

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